Pierre si sveglia e fissa per qualche momento il soffitto. È una giornata come le altre, per lui. Si alza dal letto e inizia, faticosamente, a farsi strada nella sua casa, interamente occupata da una mandria di mucche. Alla fine riesce a raggiungere la cucina, si avvicina alla macchinetta del caffè, impugna la tazza e l'avvicina alla bocca. In sottofondo, però, si sente il ticchettio di una sveglia. Pierre, ancora a letto, allunga la mano per spegnerla: quello che ha vissuto è stato solo un sogno. Un sogno che, tuttavia, molto dice della sua persona: Pierre infatti, giovane allevatore di vacche da latte, ha dedicato tutta la sua vita all'amore per quegli animali. Cosa succederebbe, allora, se quelle mucche si ammalassero, se la fonte del suo reddito dovesse venire a mancare? Pierre in fondo, come dice lui stesso, "non sa fare altro, non ha mai fatto altro".
"Petit paysan" è il racconto di questa drammatica vicenda, di un'epidemia - liberamente ispirata al tragicamente noto "morbo della mucca pazza" - che metterà in ginocchio il mondo del protagonista. Hubert Charuel, all'esordio dietro la macchina da presa, partendo da un tema autobiografico (lui, come Pierre, è cresciuto in una fattoria che ha visto la propria attività minacciata dall'epidemia), mette in scena la difficoltà a fronteggiare una simile piaga. Inizialmente, quando il paesaggio idilliaco mantiene ancora inalterata la propria purezza, la macchina da presa accompagna con delicatezza il personaggio interpretato da Swann Arlaud, soffermandosi su una mucca che affettuosamente lecca il vitellino appena nato, sulle tenere richieste di un anziano vicino: le giornate proseguono una dopo l'altra e il regista riprende, con la maggior naturalezza possibile, l'agrodolce quotidianità della fattoria.
Nel momento in cui, però, la malattia spezza la tranquillità di quell'universo, ecco che il film si apre al genere, al noir e al thriller: Pierre, onde evitare il contagio di altre bestie, è costretto a uccidere una delle sue vacche, che con ogni probabilità ha contratto il morbo. Il gesto assume i connotati di un vero e proprio omicidio: tra il sangue versato dall'animale e quello versato da un uomo non corre alcuna differenza; il fattore sente tutto il peso dell'azione, esattamente come fosse avvenuta ai danni di un essere umano. Anche la seconda uccisione è girata con grande senso della tensione: essa avviene fuori campo, con la macchina da presa che, dopo una lenta carrellata in avanti, si focalizza interamente sul corpo del protagonista. Pierre deve abdicare alla propria natura immacolata e, al fine di preservare le altre mucche, sporcarsi le mani di sangue (paradigmatica la scena macbethiana dove viene lavato il cartellino delle vacche).
L'introversione e la solitudine di Pierre diventano i connotati inquietanti della psicologia di un serial killer, la sua innocenza lascia presto il posto a un fare minaccioso e sinistro. Forse troppo artificiosamente, Charuel gioca sul cambiamento caratteriale del protagonista, che nasconde i propri misfatti sia alle autorità che agli amici più intimi. E nemmeno così naturali appaiono i personaggi secondari, dalla madre apprensiva alla panettiera innamorata, o alcune scene un po' pretestuose (il ricatto della polizia) e programmatiche (l'uomo che vuole solo sfruttare le vacche malate per visibilità).
"Petit paysan" ha però il grandissimo pregio di essere un film perfettamente attuale, sul mondo del lavoro nel ventunesimo secolo e sulla paranoia che caratterizza l'uomo moderno. Nonostante infatti l'argomento al centro del lungometraggio, Charuel non si sottrae alla descrizione delle nuove tecnologie, ma anzi mostra come esse abbiano influenzato lo stile di vita dei fattori; non si limita a una semplice dichiarazione d'amore verso un mestiere sempre meno praticato, ma riprende - senza facili condanne o prese di posizione - anche il suo rapporto con YouTube, Internet, cellulari.
Ed è per questo che il protagonista di "Petit paysan" si scopre, esattamente come l'uomo contemporaneo, tormentato dalla paranoia. Pierre ha paura di perdere ogni cosa, frequenta siti creati da gente con il timore degli illuminati dell'Unione Europea, si gratta ossessivamente dietro la spalla destra (anche lui sembra aver contratto una malattia, forse la stessa che affligge i suoi animali). L'epidemia che colpisce le vacche del fattore diventa, allora, allegoria della società dei consumi, la quale sta progressivamente sopprimendo le campagne francesi. Il mondo del protagonista è destinato a scomparire, proprio come le bestie che lo circondano: basti vedere quanta malinconia possiede l'immagine della vacca che, sul finale, viene posta da un braccio meccanico all'interno di un container. E nella figura di Pierre che, camminando, si allontana dalle mucche, dirigendosi verso un luogo a lui sconosciuto, c'è tutto il dramma della contemporaneità.
19/03/2018