Sul finire del secolo scorso il filosofo statunitense Daniel Callahan portava avanti, nell’ambito della riflessione bioetica, una critica alle prospettive che guidavano le scelte in campo sanitario, orientate verso un’interpretazione individualistica del soggetto-paziente e una fiducia sconfinata nella tecnologia. Secondo l’analisi di Callahan, lo scopo principale della medicina sembra essere diventato il prolungamento incondizionato della vita umana, anziché la cura, intesa in senso ampio e comprendente valori antropologici, sociali, nonché una fondamentale riflessione sul senso della sofferenza, sul declino della vita e sull’accettazione della morte come elemento profondamente umano.
Se dovessimo ricercare una morale di questo “Pet Sematary”, il succo del discorso sarebbe il medesimo: l’incapacità della società contemporanea di portare avanti una riflessione sulla condizione umana, sull’accettazione del dolore e del nostro essere-per-la-morte (così come lo definiva Martin Heidegger); il tentativo di superare la barriera naturale che separa la vita dalla morte, la hybris moderna che spinge a superare i propri limiti, finisce per generare mostri.
Il film di Kölsh e Widmyer (remake della pellicola dell’89 diretta da Mary Lambert, a sua volta adattamento di un romanzo di Stephen King) racconta la vicenda della famiglia Creed, che dopo essersi trasferita in una villa di campagna, scopre all’interno della proprietà un misterioso cimitero, che sembra dotato di un misterioso potere in grado di ripotare in vita i defunti. Inutile dire che si accorgeranno presto che dedicarsi alla magia nera non è esattamente una buona idea.
La riflessione sul limite della vita è accentuata da alcuni espedienti narrativi: il padre svolge la professione di medico e si ritrova spesso nella condizione di dover salvare vite; la madre è invece legata al ricordo della morte della sorella, alla quale essa ha involontariamente contribuito, ma che aveva (come scopriremo) a lungo desiderato.
L’esperienza lavorativa del padre, che lo porta spesso a contatto con scenari dolorosi, e il trauma della madre, rendono l’argomento del fine-vita un tabù nelle discussioni domestiche della famiglia Creed.
A ben vedere, volendo addentrarci in operazioni ermeneutiche, possiamo leggere il risvolto della vicenda e le sue tragiche conseguenze come un prevedibile effetto di questa condizione famigliare, come a dire che a oscurare e ad allontanare forzatamente elementi sostanziali dell’esistenza, si finisce solo per rendere mostruoso il loro necessario ripresentarsi, il loro riemergere. E c’è da interrogarsi se non sia ancora più terrificante la rimozione stessa, che non il ripresentarsi del rimosso (psicologico, fisico o metafisico che sia): il monstrum infatti, non è altro che colui che monstrat, che mostra, che rende esplicita una situazione di innaturalezza, quale il voler allontanare ed escludere la prospettiva della morte dall’esistenza, il voler superare una barriera che, come ammonisce la visione notturna del protagonista: “Non è fatta per essere superata”.
Il problema dell’opera però, che non riesce a convincere fino in fondo, è il modo piuttosto superficiale e approssimativo in cui il soggetto è sviluppato. La costruzione drammaturgica va solo poco più in là della sua idea iniziale, presentando così allo spettatore una costruzione narrativa prevedibile e poco stratificata. Dopo un lento cappello introduttivo la situazione precipita fin troppo velocemente nel suo esito finale, lasciando così al pubblico una sensazione di scontatezza.
Anche dal punto di vista espressivo il film rimane piuttosto piatto, pescando un po’ dallo slasher, un po’ dal gotico e un po’ del neo-classicismo horror alla James Wan, ma faticando a trovare il proprio personale tratto stilistico e adagiandosi piuttosto nelle regole tipiche del genere (mantenimento della tensione e jump scares, ruolo centrale della musica di sottofondo, fotografia fredda e poco illuminata).
Insomma l’impressione è che di questa pellicola non ce ne fosse un gran bisogno: meglio recuperare allora la pellicola dell’89 che potrà sempre, se non altro, vantare nella sua colonna sonora due tracce scritte per l’occasione dai Ramones, tra cui l’omonima “Pet Sematary”.
cast:
Jason Clarke, Amy Seimetz, John Lithgow, Jeté Laurence, Hugo Lavoie, Obssa Ahmed
regia:
Dennis Widmyer, Kevin Kölsch
distribuzione:
20th Century Fox
durata:
101'
produzione:
Alphaville Films, Paramount Pictures
sceneggiatura:
Jeff Buhler, David Kajganich
fotografia:
Laurie Rose
scenografie:
Todd Cherniawsky
montaggio:
Sarah Broshar
musiche:
Christopher Young