"Ché dev'esserci un modo di vivere senza dolore" cantava Fabrizio De André nella meravigliosa "Disamistade". Anche Pericle Scalzone se lo chiede, alzando gli occhi verso i lampioni che fievolmente illuminano una Liegi desolata e sporca, dove i movimenti della camorra filtrano loschi e furtivi. Pericle (interpretato dal tetro e sudicio Riccardo Scamarcio) lavora per don Luigi, gestore di alcune pizzerie della città, adibite a luogo di spaccio di eroina e al riciclaggio di denaro sporco. Tra sodomie punitive e violenze ai danni delle povere vittime, il giovane orfano capisce che l'unico modo per trovare la pace con sé stesso è una semplice bottiglietta d'acqua allungata da droghe sintetiche. Un elisir da bere tutto d'un fiato per cancellare, anche solo per poche ore, tutte le sofferenze e tutte le inadeguatezze della sua esistenza.
La nuova "provincia meccanica" di Stefano Mordini è la (quasi) fedele trasposizione delle pagine di Giuseppe Ferrandino (il film comincia proprio come il romanzo omonimo: "Io sono Pericle Scalzone. Di lavoro faccio il culo alla gente"), un noir secco e pungente, piuttosto insolito perché violenza e melò cedono il passo a un'introspezione sempre più incessante del protagonista. Operazione coraggiosa e onestamente non facile, va detto. Il Pericle, dall'anima nera, che elettrizzato da un livore inconsapevole, risveglia la faida di famiglia (dando il via alla performanza narrativa del film), è personaggio legato alla teatralità di certe figure iconiche da tragedia greca, come quella del suo omonimo vissuto nel 400 a.C. che cerca la felicità nella libertà e la libertà nella virtù. Quella stessa virtù che nel protagonista è però rattrappita dai dolori dell'infanzia, della violenza, della miseria. È quantomeno interessante, dunque, l'approccio schietto e diretto della pellicola nelle prime battute, nonostante il ritmo del racconto fatichi notevolmente a prendere quota.
Nella seconda parte il noir sembra quasi virare in un
road movie, con l'autostrada notturna che collega le infinite distese di cemento sino alle ventose spiagge di Calais. Sono le prime luci del film e la fuga di Pericle coincide con un'agognata speranza di libertà. La figura della bella divorziata Anastasia è un punto di rottura nel percorso intrapreso dal protagonista, invaghito della donna quasi più per riscattare un passato di cocenti delusioni ed emarginazioni che non per un innamoramento carnale e passionale. Invece di proseguire a scandagliare l'animo in rivolta del protagonista (come il bel pianosequenza che racchiude gli intimi dialoghi tra i due, distesi sul letto), invece di focalizzare il racconto sulle continue, tumultuose trasformazioni del personaggio, Mordini lo abbandona per dare invece manforte a una sceneggiatura sino a quel momento avara di espedienti narrativi.
"Pericle il nero", unico film italiano in lizza per un premio al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Reguard, è un'opera interessante che però, sulla lunga distanza, risente del confronto con il romanzo di Ferrandino, col quale mantiene l'essenzialità dei dialoghi ma ne patisce il percorso di svelamento, soprattutto nelle fasi conclusive della pellicola, e i prolungati monologhi in voice over. Riuscita invece è la volontà di non voler calcare la mano su politica e potere del crimine organizzato nostrano, evidenziandone piuttosto la "sua miseria morale, la solitudine che gli appartiene. La sua meschinità". Inizialmente doveva essere un progetto orchestrato da Abel Ferrara, è finito poi per essere coprodotto dai fratelli Dardenne. Il noir di Mordini non possiede però né il cinismo tenebroso del primo, né tantomeno il vivido realismo dei cineasti belga. Resta lo sguardo perso nel vuoto di Pericle/Scamarcio e un racconto di riscatto e libertà messo in scena senza troppi acuti.
15/05/2016