Dopo una imprevedibile trasferta tra le brume della Brianza - su cui indugiava "Il capitale umano" per inseguire i riflessi della dilagante corruzione dei rapporti interpersonali, di quella crescente volgarità intellettuale, subito pronta a voltarsi in violenza e malaffare - attendevamo con sincera curiosità di scoprire quali traiettorie avrebbe imboccato il bellissimo cinema di Paolo Virzì. L'impressione di un brusco dietrofront ci aveva colto, all'uscita del primo trailer, nel riconoscere gli sfondi del ben noto lungomare toscano, virati in corpose tonalità pastello, in quell'ordito di vitalità e fievoli malinconie che vi si indovinavano. Che Virzì avesse rinunciato alla messa in discussione del proprio cinema? Che avesse scelto consapevolmente di ignorare l'irrisolto e coraggioso nodo de "Il capitale umano", sul quale avevamo scommesso come punto di svolta della sua arte? Niente affatto. A ben vedere "La pazza gioia" si propone come l'esito irrinunciabile di un percorso cristallino, l'ennesimo frammento teso a convergere in quel mosaico dei rapporti umani che il regista va intarsiando con trasporto e cura certosina ormai da un ventennio. Confluiscono, in esso, gli stilemi consueti, senza che la coerenza si traduca in maniera e, ancor più, vi si corregge l'abituale cruccio del cinema di Virzì, quell'altalena tra lo sviluppo dei caratteri e la tenuta drammaturgica, la cui frizione incrina, di tanto in tanto, la riuscita complessiva dell'opera.
Maestro del bozzetto, del disegno stilizzato, il regista ama comporre i suoi caratteri in levare, con la precisione e la rapidità di un elzevirista, salvo poi affidare all'esilità di queste figurine salaci, di questi profili degni di Grosz, il peso solenne di una drammaturgia. Ecco il dubbio che ci aveva colto al termine de "Il capitale umano", nella cui derivazione romanzesca è, forse, da rintracciare l'esigenza di incanalare ogni storia entro la forma coerente di un discorso, piegare ogni gesto a un significato, ordinare, insomma, la materia filmica sulle direttrici di uno schema didattico - con tanto di chiosa aforistica a suggellare il contenuto morale del progetto.
Con "La pazza gioia" il cinema di Virzì si libera - almeno in parte - dalla tirannia del senso e insegue un racconto che corre a briglia sciolta sul crinale della follia. Protagoniste sono due ospiti di "Villa Biondi", Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti), recluse tra le mura di quella che un tempo era un'elegante dimora signorile e ora è una casa di recupero per donne affette da disturbi mentali. Lungo i viottoli che la circondano, tra gli orticelli e le macchie di erbe aromatiche, Beatrice incede con passo aristocratico, assegnando mansioni a medici e pazienti; nei suoi occhi lo sguardo fiero e un po' imbronciato di una nobildonna decaduta e costretta a guidare stormi di visitatori tra i corridoi del suo maniero. L'arrivo di Donatella, una giovane misteriosa che porta sul fragile corpo i segni delle proprie nevrosi, sembra piegare la sua solitudine signorile. Un giorno, sottratte dal caso al durevole sguardo degli infermieri, le due donne si ritrovano, colme di gioia e divertita incoscienza, a bordo di un autobus, che le porterà a girovagare lontano dalle colline pistoiesi nel tentativo di ritrovare quegli affetti - veri o presunti - che furono all'origine del loro crollo emotivo.
Con "La pazza gioia" Virzì ci lascia la certezza di essere, tra i registi italiani, quello maggiormente coinvolto nelle sorti dei suoi protagonisti; l'unico, forse, capace di intuire le più sottili rispondenze tra attore e personaggio. In questi riverberi che illuminano le prestazioni dei suoi interpreti riconosciamo il sintomo di una sincera dedizione all'umana vitalità dei caratteri. E come la protagonista de "La prima cosa bella" (ancora una volta Micaela Ramazzotti, compagna del regista) si aggrappava alla nostra memoria di spettatori senza più lasciarci, così sembrerebbe voler fare la Beatrice di Valeria Bruni Tedeschi, fragile creatura in cui cogliamo più di un'assonanza con la protagonista di "Un tram che si chiama desiderio". Come Blanche DuBois è una creatura letteraria, dedita a custodire per mezzo di fantasie romantiche il sogno di una purezza impossibile, così Beatrice difende con ostinazione - e una spossante logorrea - il suo retaggio nobiliare, ultimo baluardo contro l'irruzione di una realtà che l'ha relegata ai margini del quieto vivere aristocratico. La pazzia è, allora, null'altro che una meditata forma di sopravvivenza, per Blanche dalla volgarità del mondo, per Beatrice dall'inciviltà della miseria, di una vita sterile, consumata all'ombra del lavoro, senza vizi e borsette Louis Vuitton a lenire la monotonia quotidiana.
Con l'acume che ormai da tempo gli riconosciamo, spazzato via ogni miraggio sentimentale, Virzì fa di Beatrice l'ironico - ma, in fondo, dolce - ritratto di un classismo arrogante, redento, infine, da una pulsione anarchica e fieramente egoista, che non manca di strapparci un affetto sincero. Come nella scena al ristorante di lusso - o quella, appena precedente, del tentato prelievo in banca - quando osserviamo la rigida e discreta correttezza dei rituali borghesi soccombere al trionfo del piacere di Beatrice, che è istantaneo, aggressivo e orgoglioso, nonché del tutto indifferente a qualunque conseguenza.
Donatella, all'opposto, è una ragazza di modeste origini, profondamente ferita dalla vita. A lei Virzì regala una delle migliori battute del film (sebbene vi sia l'imbarazzo della scelta): "Siamo nate tristi", confida sottovoce all'amica. La sua fragilità, cui Micaela Ramazzotti dona un corpo esile e contrito e uno sguardo tenero, silenzioso, di straordinaria bellezza, è il sigillo di un dolore senza voce, che trova la sua origine in un violento sradicamento degli affetti. Per lei la realtà non è alterata dal sogno, anzi, è fin troppo nitida e cruda per sopportarla.
Si potrebbe credere che il film demandi alle follie di Beatrice le risate e ai trascorsi di Donatella il suo contenuto più malinconico. Non è così; l'abilità di Virzì sta, appunto, nel dosare con cura le sfumature emotive e, sebbene indubbiamente i poli della commedia e del dramma trovino nelle due protagoniste i rispettivi baricentri, i momenti migliori de "La pazza gioia" sono, forse, quelli in cui il sorriso ci sfugge dalle labbra e intuiamo, in un istante, tutto il dolore di Beatrice, di norma soffocato dalla sua esuberanza - la scena violenta al tavolo da gioco, quella tenue e sussurrata sul lungomare versiliese - o quelli, all'opposto, in cui è Donatella a regalarci un sorriso distratto - la folle fuga in macchina da un set cinematografico.
Non mancano, è vero, alcune debolezze di scrittura (a più mani, con Francesca Archibugi), nonché momenti - quasi tutti corali - in cui il bozzettismo ereditato dalla Commedia dell'Arte si fa più evidente e finisce, per contrasto, col togliere verità al racconto - su tutti: il congresso dei medici a Villa Biondi. Ma se questi ci paiono il pegno inderogabile di una tradizione che a suon di Arlecchini, Brighelle e Pantaloni ha formato l'identità nazionale - tanto che l'arte satirica ci appare, talvolta, timida a confronto con la realtà - più difficile da giustificare è il racconto dell'episodio all'origine del ricovero di Donatella. Nel ritmo salmodiante di quel discorso, declamato con studiata competenza, si avvertono finanche le virgole, i punti, gli a capo; detto altrimenti: è il respiro stesso della prosa a emergere, mentre il personaggio svanisce ai nostri occhi, sostituito dall'attrice, sola, sulle tavole di un palcoscenico.
A dispetto di alcuni momenti irrisolti, "La pazza gioia" è un film da amare quanto le sue splendide protagoniste, specie per quei vuoti che aprono il racconto, per quell'assurda fuga senza meta, in cui gli eventi sono slegati, costretti a consumarsi nell'attimo e quel che accade obbedisce a una logica che è del sogno - e a chi lamenti una mancanza di coesione, chiediamo: come potrebbe esserci?
Siamo, allora, al centro del film, nel suo sviluppo più libero e felice, quello in cui i personaggi, sciolte le briglie della drammaturgia, realizzano se stessi, si impongono ai nostri occhi e ci catturano. Non potevamo chiedere di meglio.
cast:
Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti, Valentina Carnelutti, Marco Messeri, Anna Galiena, Tommaso Ragno
regia:
Paolo Virzì
distribuzione:
01 Distribution
durata:
118'
produzione:
Lotus Production, Rai Cinema
sceneggiatura:
Paolo Vrzì, Francesca Archibugi
fotografia:
Vladan Radovic
scenografie:
Tonino Zera
montaggio:
Cecilia Zanuso
costumi:
Katia Dottori
musiche:
Carlo Virzì