"My life is fucking awasome", ripete tra sé a ritmo di
beat Patricia Dombrowski, soprannominata "Dumbo" ma in arte Killa P. "My life is fucking awasome": quasi a volersi auto-convincere che, quella vita nel New Jersey da eterna
loser, sia veramente
fottutamente fantastica. Lei è una
rapper e lotta quotidianamente per sfondare nell'ambiente, cerca un lavoro in grado di darle quei due spicci necessari al mantenimento della propria passione e si muove nella città con grazia paradossale, considerando la sua corporatura. Sogna il successo, ricerca la fama; nel frattempo, però, scrive i testi delle sue canzoni nei bagni dei luoghi in cui lavora. Si circonda di altri
loser, di altri emarginati, di altri sfigati: la nonna malata, il coetaneo farmacista indiano, l'anarchico nero pieno di rabbia nei confronti della società che lo circonda. "My life is fucking awasome": no, la sua vita non lo è proprio fottutamente fantastica, perché lei lotta, si dimena, ma non ci riesce a sfondare. No, non ci riesce assolutamente.
Geremy Jasper, all'esordio in qualità di regista, porta su schermo l'esuberante personalità della sua protagonista con una messinscena schizofrenica, fatta di zoomate, panoramiche a schiaffo, jump-cut, ralenti, cambiamenti in diretta di luci, squarci visionari in bianco e nero e chi più ne ha più ne metta. A metà strada tra il Paul Schrader di "
Cane mangia cane" e lo Sean Baker di "Tangerine", Jasper asseconda il ritmo forsennato del rap con uno stile nervoso, atto a restituire tutta la passione e l'energia di quella musica. Certo, nulla di originale, incredibile: anzi, forse pure l'approccio più semplice alla materia trattata, quello che più rientra nei canoni della classica pellicola indipendente da Sundance. Eppure, "Patti Cake$" non cerca di fuggire da questa sua natura (sia per forma che per contenuti) orgogliosamente
indie, che dalla provincia statunitense nasce e della provincia statunitense parla. Perché in fondo questa è la maniera più semplice, la più immediata, la più efficace, per rappresentare queste persone, questi esclusi.
Dove invece si avverte maggiormente la natura derivativa del film (in contrasto con la sua carica anarchica e con la sua forte componente realistica) è nella descrizione dei legami tra i personaggi e nell'accumulo di codificate soluzioni narrative: elementi che rendono più difficile l'immedesimazione dello spettatore nella vicenda, considerando anche come la trama segua un canovaccio ormai abusato e che l'ambiente che Jasper descrive non fugga gli stereotipi
del genere. "Patti Cake$" è in fondo il solito racconto - basato sulla forza dirompente della sua protagonista, interpretata da Danielle Macdonald - sull'illusione del sogno americano, personificato dal rapper Oz.
Nella seconda metà dell'opera emergono poi altri problemi, dati dal dover ricondurre la narrazione a una struttura più tradizionale per giungere alla conclusione: all'incedere schizzato della prima parte, dove la musica riesce ad accompagnare perfettamente le immagini dando libero sfogo alla creatività e originalità dell'autore, se ne contrappone una seconda dove Jasper, nel mostrare come la logica del sogno debba necessariamente venire a patti con quella crudele della realtà, eccede in qualche semplificazione di troppo. Ma insomma, poco importa: "Patti Cake$" non sarà certo innovativo, particolarmente originale o un punto di non ritorno per la storia del cinema, ma è semplice, genuino e, cosa che più conta, sinceramente interessato a riprendere il mondo che racconta con passione e fedeltà (almeno nello spirito). E a un film caratterizzato da questa energia, quest'anima, questa vitalità, siamo disposti a perdonare tanto, chiudendo volentieri un occhio davanti ai suoi limiti, lasciandoci trasportare dal suo fluire inesorabile e, a tratti, persino irresistibile.