Da una parte l'immagine più significativa del film, dall'altra la storia che si compie fino ad arrivare a quel punto fatidico. Per raccontare la biografia della propria famiglia, riferendosi all'attentato al padre Alfonso, vicequestore di Roma oggetto di un agguato da parte dei Nuclei Armati Proletari nel 1976, Claudio Noce aveva due strade: quella di narrare una delle stagioni più drammatiche e sanguinose dei nostri anni attraverso uno sguardo che favorisse la ricostruzione d'epoca con una lente sociologica e politica; oppure, come invece è successo, fare di un'esperienza privata e personale la sineddoche di quella vissuta dall'intera nazione in cui gesti, paure e angoscia di una famiglia - quella del regista - colpita in prima persona dall'odio e dalla ferocia di quegli anni diventano lo specchio di una guerra dichiarata allo Stato e ai suoi più strenui difensori.
Nella costruzione compositiva così come nel travalicare la sua funzione narrativa per assumere significati onnicomprensivi, l'immagine dei due bambini ripresi in campo lungo mentre osservano Alfonso dormire nel letto della casa natia è quella a cui Noce assegna il compito di riassumere l'essenza del film, di spiegarne il titolo ma anche di gettare le basi di una futura riconciliazione (non diciamo di più per non rovinare la sorpresa del lettore chiamato a constatare o meno la corrispondenza sullo schermo di tale affermazione). Se la mdp fa della figura - del padre di Valerio - distesa sul letto un richiamo esplicito alla celebre deposizione del Mantegna e quindi del magistrato interpretato da Pierfrancesco Favino una specie di Corpus Christi, allora è chiaro che la dimensione ultraterrena del contesto, data al tutto dai riferimenti alla crocifissione, morte e resurrezione di Gesù Cristo, diventa all'interno di "Padrenostro" non solo un espediente narrativo atto a giustificare la parità di sguardo e di significati attribuiti dai bambini - il padre vivo di Valerio e il padre morto di Christian - all'oggetto della loro osservazione (da cui il titolo "Padrenostro"). La sequenza in argomento, infatti, ribadisce una coerenza narrativa e di senso - data dalla riconciliazione delle parti in causa attraverso la stretta di mano messa a chiusura del film - che in "Padrenostro" non viene mai a mancare, a patto di considerare il cinema non un libro ma piuttosto un'opera d'arte in cui montaggio e immagini diventano l'altro modo per raccontare e raccordare ciò che le parole non sono sempre capaci di fare.
In questa ottica, occupandosi di una materia che pesca nelle emozioni dei ricordi personali mettendone in scena angosce e desideri ma anche gli spettri di un rimosso che interessa tanto il regista quanto parte degli spettatori, non è sbagliato definire "Padrenostro" un film di fantasmi. Ancora una volta a venire in aiuto non sono tanto dialoghi e fenomenologia quanto il lavoro di montaggio (Giogiò Franchini) e di composizione visiva (Michele D'Attanasio) presente in altre due sequenze chiave: la prima, relativa alla ricostruzione dell'attentato al padre di Valerio (Mattia Garaci) in cui lo spettatore non viene posto nella condizione di vederne gli esiti e così facendo messo nella posizione di non essere certo se la ricomparsa in scena della vittima sia reale o solo frutto di una proiezione del figlio che ha assistito al fatto. La seconda, di tenore più classico, in cui Valerio gioca a Subbuteo con un amico immaginario che in seguito potrebbe avere la faccia e il corpo di Christian (Francesco Gheghi), compagno di giochi che lo accompagnerà in Calabria, terra in cui la famiglia di Valerio si rifugerà per spezzare la tensione scaturita dalla paura di subire altri attacchi terroristici.
Considerando che la "favola" di "Padrenostro" è il frutto di una doppia rimembranza, quella di Valerio in primis ma anche quella del regista (in realtà ce ne sarebbe una terza, perché la storia viene innescata dai ricordi della versione adulta del protagonista che ritorna agli anni della sua vita più giovane), va da sé la consistenza magica, onirica ed emozionale della messinscena. Come avviene nella vita in cui da adulti non abbiamo un storia lineare dell'esistenza passata ma una serie di immagini forti che, nella loro coerenza emotiva e non nella logica narrativa, riescono a ricostruire il percorso del nostro passato, così nel film di Noce l'importanza dei frammenti visivi e il modo in cui il montaggio ellittico li collega fanno la differenza. Allo stesso modo della fotografia di Michele D'Attanasio in grado di dare "corpo" allo scarto tra i sentimenti implosi della prima sezione del racconto - quello ambientato a Roma in cui la mdp avvolge i personaggi in un corpo a corpo senza respiro - con il successivo, collocato nel Sud Italia, in cui il film come i personaggi si aprono alla primordialità della natura calabrese per dare sfogo e fare i conti con le pulsioni di un inconscio segnalato dalla stilizzazione iperreale degli elementi compositivi. Della stessa matrice sono intrisi i suoni, in molti passaggi non reali ma ricostruiti ex novo per sembrare più il risultato del sentire dei personaggi che l'eco dei rumori della vita quotidiana.
In concorso al Festival di Venezia 77 e vincitore della Coppa Volpi per il miglior attore andata a Pierfrancesco Favino, "Padrenostro" è un cinema che non ha paura di essere quello che è, anche a rischio di non essere capito.
cast:
Anna Maria De Luca, Mario Pupella, Lea Favino, Barbara Ronchi, Mattia Garaci, Francesco Gheghi, Pierfrancesco Favino
regia:
Claudio Noce
distribuzione:
Vision Distribution
durata:
120'
produzione:
Lungta Film, PKO Cinema & Co., Tendercapital Productions, Vision Distribution
sceneggiatura:
Enrico Audenino, Claudio Noce
fotografia:
Michele D'Attanasio
scenografie:
Paki Meduri
montaggio:
Giogiò Franchini
costumi:
Olivia Bellini
musiche:
Ratchev & Carratello