E' sufficiente mostrare icone sacre o parlare di storia medievale per fare cultura, o peggio un film d'autore? No di certo. Probabilmente ne è consapevole anche la regista Mia Hansen-Løve, che voleva solo aggiungere un aspetto centrale alla caratterizzazione del suo protagonista, ispirato alla figura del coraggioso produttore Humbert Balsan, già attore per Bresson, amante del cinema arabo, sponsor delle giovani cineaste francesi, finito in rovina per colpa delle ambizioni e di Béla Tarr.
Della sua controfigura Grégoire Canvel sappiamo tutto: che fuma in continuazione, colleziona decurtazioni di punti della patente, ama moglie e figlie quanto la trascura, per lavoro non fa altro che rispondere alle chiamate su almeno due telefonini. D'altronde è un produttore di film d'arte. E ovviamente è sommerso dai debiti. Il costante pedinamento della macchina da presa rischia di rendercelo antipatico in breve tempo, ma non basta a indagarne la psiche e spiegarne le scelte estreme. Le sfumature della sua personalità si accumulano. Solo un segreto di famiglia ci è ignoto, ma scoprirlo significherà aggiungere minuti di troppo a un film che ne ha una trentina in esubero.
"Il padre dei miei figli", ovvero "La stanza (meglio, il lavoro) del padre", è così: fa di tutto per raccontare il più possibile, evitare gli scivoloni nel patetico, nel retorico, nel sentimentale, dare spessore ai personaggi, andare oltre l'autoreferenzialità del film sul cinema. Ne ricava però un congelamento totale delle emozioni, un eccesso di temi, di scrittura, di prolissità. Mentre al contempo certi passaggi sono sbrigativi (l'elaborazione del lutto) e il punto di vista femminile suggerito dal titolo fatica ad imporsi. L'unico ambito in cui la ventottenne autrice dimostra un discreto talento è la direzione degli attori: il rischio è che il doppiaggio tolga uno dei pochi motivi di interesse. Inspiegabile l'unanimità della critica internazionale, che ha scomodato addirittura Ozu.
12/05/2010