Non fosse una cosa onestamente improponibile (e il sottoscritto un po' se ne scusa), verrebbe da citare quel cantante italiano che anni fa lanciava le sue invettive contro la "bella senz'anima", una donna cioè magari esteticamente affascinante, ma priva tuttavia di qualsiasi scintilla umana. Ecco, il suo corrispettivo cinematografico è pressapoco questo: un film tecnicamente curato, girato bene, formalmente inappuntabile, ma totalmente vuoto al suo interno. Un "bell'involucro" il cui contenuto non prende, non coinvolge, non comunica, non sa di niente.
E mai ci saremmo aspettati (torno al plurale maiestatis perché la citazione musicale iniziale dovevo avere il coraggio di farla da solo) che ciò succedesse proprio con un regista che invece prima di questo "Oxford Murders" ci aveva piacevolmente sorpreso con buoni(ssimi) lavori, diventando un po' il "nome nuovo" della scuola cinematografica spagnola: le sue ultime prove, infatti ("La Comunidad", "Crimen Perfecto"), avevano dimostrato in maniera egregia come fosse possibile rielaborare il gusto del grottesco, della parodia feroce, cinica, nerissima, dentro generi ben definiti (commedia, giallo) per arrivare poi a farli deflagrare direttamente dall'interno e prendersi gioco così non solo delle ipocrisie, dei paradossi, delle assurdità della società moderna, ma anche dei generi cinematografici stessi, usati a proprio beffardo piacere.
Bene, qua invece non accade fatalmente niente di quanto detto: come se l'approdo ad una produzione internazionale (franco-americana) con tanto di cast altisonante, e l'adattamento di un romanzo giallo di successo (che si rifà comunque a sua volta allo schema collaudatissimo del "chi è l'assassino", la citazione del Cluedo non è casuale d'altronde), bastasse a "ripulire" il giocattolo di tutta la sua carica corrosiva, deformante, morbosa (chiedere a Polanski o Lynch come fare, allora!). L'impressione è quindi quella del "compitino portato a casa": ma non basta certo un piano sequenza ben elaborato (quello del primo omicidio) per far vedere di saper fare buon cinema, così non basta mettere sul piatto un colpo di scena finale che ribalta tutti i canoni del genere per dimostrare automaticamente di aver fatto un buon giallo/thriller.
Allo stesso modo, non bastano i nomi per fare un buon cast: così Elijah Wood e la sua espressione perennemente ebete/imbambolata, John Hurt e il suo istrionismo gigioneggiante, Julie Cox fin troppo psicolabile e Leonor Watling bella e basta (che si finisce addirittura per rimpiangere la bruttissima e perfidissima Monica Cervera) finiscono per essere ben altro che valore aggiunto al film (per non citare poi la scena pseudo trash degli spaghetti mangiati dai due amanti Wood/Watling sul florido seno di lei). Come se tutto questo non bastasse, ecco infarcire la trama, già di per sé non estremamente fluida, di discussioni e digressioni matematico/simbologico/filosofiche da mal di testa, decisamente troppo.
Insomma, un quattro potrà sembrare esagerato a chi non conoscendo De La Iglesia (e fa male) si aspettasse da "Oxford Murders" niente più niente meno che un thrillerino di poche pretese, ciò che in sostanza è e rimane. Ma è un voto appropriato, anzi d'obbligo, per chi come il sottoscritto (e torno da solo, che c'è un'altra presa di coraggio) aveva amato il folle condominio de "La Comunidad" o la folle trappola amorosa de "Crimen Perfecto". Sì perché, sempre per citare un'altra gloriosa (si fa per dire) produzione musicale nostrana, caro Alex, "Si può dare di più".
24/11/2008