Roccia usata dagli uomini preistorici per fabbricare armi affilate e modernamente impiegata per farne gioielli, l’ossidiana rappresenta il correlativo oggettivo di Maria Palliggiano, pittrice napoletana attiva negli anni ’60: “un misto di durezza e fragilità”, come dice il marito Emilio (Renato Carpentieri) regalandogliene un frammento. Maria (Teresa Saponangelo) è a sua volta emblema di un’esistenza consacrata all’espressione artistica ma osteggiata da un contesto pesantemente condizionato da schematismi, clientelismi e pregiudizi inveterati.
Anche l’ambiente intellettuale (Maria si sposa con Emilio Notte, direttore dell’Accademia delle Belle Arti di Napoli, dal quale ha un figlio) soffre di chiusura mentale, vincolato com’è a cascami passatisti, politicizzazione d’ordinanza e logiche di mercato. E così, tra tentazioni normalizzanti (l’insegnamento all’Accademia di Bari) e ricatti morali (i rimproveri di madre non abbastanza premurosa), Maria si sente soffocare: ai suoi dipinti densi, pastosi, intimi confida, per via di trasfigurazione estetica, il disgregarsi delle certezze (la caduta dei cubi, 1966) e il prorompere di una vitalità creativa tellurica e lacerante (fiore che spacca la terra, 1967).
Esacerbata dall’infedeltà del marito e dall’ipocrisia salottiera, la frizione con la realtà si trasforma in incompatibilità, in esclusione: Maria viene ricoverata in clinica psichiatrica dove è ripetutamente sottoposta a terapia elettroconvulsiva. Lo strappo è insanabile: Emilio la rimpiazza (o meglio la integra) con Anna (Stefania De Francesco) e inquietanti visioni la tormentano in continuazione. Il periodo successivo (galleria inesistente, 1968) la vede partecipare in prima persona alle vulcaniche performance del gruppo di artisti capitanati dall’americano Victor (Andrea Renzi), scavando un fossato sempre più profondo con l’attività del marito e rimediando un’altra devastante delusione sentimentale (Victor la respinge sprezzantemente, istigandola alla trasgressione).
Sola con le sue visioni e le sue ferite interiori, Maria si imbottisce di psicofarmaci e sviluppa uno spiccato distacco dalla realtà (rutilante zapan, 1969) che è anticamera e preludio al suicidio, portato a compimento con un colpo di pistola dopo aver strappato minuziosamente le pagine del suo diario.
Sceneggiato da Silvana Maja con la collaborazione di Rolando Stefanelli a partire dal romanzo omonimo della stessa cineasta napoletana (pubblicato nel 1999 dall’editore Tracce e ripubblicato nel 2007 dalla Voland), "Ossidiana" ha avuto una preparazione a dir poco travagliata: dapprima incluso (2003) e successivamente escluso (2004) dal finanziamento per le Opere Prime del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (a causa dell’entrata in vigore della nuova legge sul cinema), il progetto ha dovuto attendere circa tre anni di rivendicazioni comuni (condotte insieme al Gruppo 16-12) e ricorsi legali per ottenere parte del finanziamento regolarmente assegnato nel 2003.
Indubbiamente l’esordio al lungometraggio cinematografico di Silvana Maja (alle spalle una decennale esperienza nella realizzazione di corti, mediometraggi e collaborazioni televisive) presenta dei meriti sia dal punto di vista storico-artistico (oltre a dare visibilità alla figura misconosciuta di Maria Palliggiano, il film ricostruisce sinteticamente il tessuto culturale napoletano del periodo) che da quello tecnico (pregevoli le scenografie non esageratamente paludate di Adolfo Recchia e ottimo il montaggio paratattico di Giogiò Franchini, vero punto di forza del film), eppure è impossibile non ravvisarvi un’enfasi dimostrativa che ne limita la complessità tematica e l’ampiezza espressiva.
Sovraccaricato da scrupoli di risarcimento, il personaggio di Maria tende ad assumere la funzione di parafulmine collettivo verso il quale convogliare le brutture patenti (la grettezza paterna, la disumanità dei trattamenti psichiatrici, il carrierismo borghese) e latenti (la bulimia erotica di Emilio, la normatività del ruolo materno, l’emarginazione mascherata da compatimento) di un’intera società, trasformandola in vero e proprio capro espiatorio. Ingiustamente e ripetutamente offesa negli affetti, nell’anima e nell’arte, la figura di Maria tende più all’agiografia che alla biografia, avocando a sé tutti i meriti (l’indifferenza alle mode pittoriche, il coraggio di esporsi in prima persona, il talento derubato dal marito) e macchiandosi di una sola scappatella balneare con un prestante bagnino come antidoto alla beatificazione assoluta.
Le corrisponde, sul versante opposto, il personaggio di Anna, l’amica/rivale che non si fa scrupolo alcuno ad approfittare del suo ricovero in clinica per sostituirla totalmente nelle grazie del marito: sfumature non pervenute.
Ad una scrittura interamente consacrata alla riabilitazione si uniforma la messa in scena: direzione degli attori di stampo marcatamente teatrale (dalla Saponangelo a Carpentieri passando per Renzi e Vincenza Modica), impaginazione narrativa per quadri (in un rigido nesso causa-effetto tra vicende personali e produzione artistica) e frequenti sprazzi visionari che illustrano didascalicamente incubi, allucinazioni e immagini mentali della protagonista. Dove invece "Ossidiana" rompe improvvisamente la gabbia del film a tesi e intercetta l’“indicibile” della creazione artistica è nelle sequenze squisitamente pittoriche, inafferrabilità luminosamente amplificata da accensioni visive e dislocazioni digitali che vivificano le opere di Maria Palliggiano. Di elegante e sottile minimalità il commento musicale dei FRAME.
27/01/2009