Per un regista italiano realizzare una commedia d'autore significa, tra le altre cose. trovare il modo di rendere il proprio lavoro distinguibile da quello degli altri. In tempi di crisi la saturazione del mercato causato dalla distribuzione inconsulta di titoli appartenenti al genere in questione impone la necessità di aiutare il pubblico a individuare la diversità del proprio prodotto, pena la sparizione del film dalle sale dopo la prima settimana di programmazione. Così, per esempio, se fosse toccato a noi il compito di promuovere il film di Duccio Chiarini a esserne sottolineati in fase lancio sarebbero stati due aspetti che lo diversificano dal resto del gruppo e cioè, da una parte, la scelta dei toni utilizzati per raccontare la storia, dall'altra quella degli attori chiamati a interpretarla, nella consapevolezza che la vicenda di di Guido, il protagonista de "L'ospite" messo fuori casa dalla richiesta della fidanzata di riflettere sulla loro relazione e per questo costretto a soggiornare a casa degli amici, non è certo di quelle inedite al pubblico italiano. A risaltare, nel nostro resoconto, sarebbe stata la notizia di come il regista abbia evitato di farsi prendere la mano dagli eccessi con i quali solitamente si ritrae un disamore come quello che attanaglia Guido e le coppie a cui l'uomo ha chiesto nel frattempo "asilo". Nei titoli di testa avrebbe trovato spazio una voglia di normalità inseguita alleggerendo il dramma con l'agrodolce di certe situazioni; e poi l'efficacia con cui Chiarini decide di mostrarla sullo schermo, rendendola concreta attraverso un
ensemble di attori nel quale la supremazia estetica riservata ai ruoli di primo piano è sostituita da una democrazia fisiognomica che mette tutti solo stesso piano e che, per fortuna, non prevede alternative al canone estetico stabilito dalla presenza di Daniele Parisi/Guido e Silvia D'Amico/Chiara, anche quando si tratta dei ruoli secondari, ricoperti dai bravi Anna Bellato, Sergio Pierattini, Milvia Meravigliano e da Thony, sintesi perfetta della capacità del film di affascinare senza tradire le proprie prerogative.
Una scelta coraggiosa ma consapevole, quella del regista, di rinunciare all'
appeal della star di turno (per i risvolti che essa comporta in termini di incassi e visibilità) in favore della certezza di poter contare su una sceneggiatura a dir poco blindata (scritta da Chiarini con la complicità di Roan Johnson collaboratore della prima stesura, scritta più di 10 anni fa, e successivamente modificata dal regista che ne ha cambiato la trama e riscritto i dialoghi), capace non solo di dare ritmo alla stasi in cui precipita Guido dopo l'aut aut di Chiara, ma anche di valorizzare il potenziale comico di certe battute, inserite non come fine da perseguire, ma quale espediente per rilanciare ciò che segue. Un principio, questo, che ricorda da vicino il cinema di
Woody Allen, presente, assieme a quello di Massimo Troisi ("Credevo fosse amore invece era un calesse") e
Nanni Moretti (ma senza averne l'ego), quando Guido da parte attiva della vicenda ne diventa subalterno, assumendo il ruolo di testimone (morale) delle vite degli altri. Che poi a Chiarini non manchino inventiva e sfrontatezza lo si vede per esempio nell'inquadratura iniziale (dal tenore inedito per una commedia) in cui l'espediente che mette in moto la storia prevede allusioni e nudità esplicite da parte dei due protagonisti e, ancora, in quella di chiusura, fortemente iconica, dove la sospensione emotiva prodotta dalle decisioni di Chiara trovano corrispondenza nell'immagine di Guido seduto nel divano lasciato sulla strada per essere gettato nei rifiuti. A suggellare un esempio di cinema mainstream che risulta persuasivo senza essere invadente. Da non perdere quando uscirà nelle sale italiane.