Definire "cineasta" un artista come Lech Majewski è senz'altro limitativo. Conosciuto in Italia sopratutto per quel capolavoro di messa in scena che era
"I colori della passione", il polacco è un intellettuale poliedrico, che spazia dalla poesia alla saggistica, dalla video arte alla televisione, dalla musica alla pittura. Sempre con un occhio di riguardo per il Belpaese ("spiritualmente sono nato in Italia, a Venezia, di fronte a un Giorgione. E adoro il De Chirico metafisico, i registi che amo sono
Fellini, Visconti, Pasolini, il giovane Bertolucci [...] E Antonioni, ovviamente. Dino Buzzati è il mio scrittore preferito del XX secolo"*), e con un costante approccio interdisciplinare. Se la base di partenza per "I colori della passione" era il dipinto "La salita al Calvario" di Bruegel il Vecchio, trasformato dal Nostro in un geniale
tableau vivant, il filo conduttore del suo dodicesimo lungometraggio per il cinema è nientemeno che la "Commedia" del sommo poeta fiorentino. Raramente un regista si è cimentato in un vero e proprio adattamento del poema dantesco e Majewski, conscio dell'impossibilità (e dell'inutilità?) dell'impresa, non fa eccezione: il testo è lo spunto, la guida di costante riferimento; quello che per Dante era Virgilio. Ma il film è altro.
Il viaggio all'inferno e ritorno è infatti metaforico. E di ambientazione contemporanea. Adam (un Michal Tatarek poco convincente), studioso di poesia simbolista, sceglie l'impiego come cassiere in un ipermercato dopo aver perso la compagna e il migliore amico in un terribile incidente, che gli ha lasciato in eredità una vistosa cicatrice sul volto e frequenti crisi di narcolessia. Inevitabilmente, anche la sua fede vacilla. Se va a trovare la zia Xenia, unica parente rimastagli, con cui può avere un fecondo scambio intellettuale, lo fa controvoglia, dietro sua insistenza. Predilige la solitudine delle preghiere in Chiesa, delle visite a mostre e cattedrali. I versi di Dante lo accompagnano attraverso un auricolare, visioni e incubi ricorrono e prendono gradualmente il sopravvento sulla realtà.
La prima parte, in cui la sceneggiatura (sempre ad opera di Majewski che cura, da solo o in collaborazione, anche musiche, suoni e fotografia) svela poco a poco il presente e il passato recente di Adam, è la più intelligibile, complessa e azzeccata.
È a metà che la pellicola vive momenti di stanca. Qui l'autore cerca di "socializzare" i traumi del protagonista allargando lo sguardo a quelli del paese che, in anni recenti, ha subito una terrificante alluvione, nonché la decapitazione di tutti i gli alti papaveri dello stato in un incidente di volo senza precedenti, mentre il traffico aereo dell'Europa era paralizzato dalle polveri del vulcano islandese Eyjafjöll.
L'evoluzione, certo prevedibile, verso una dimensione sempre più psico-onirica offre la possibilità all'autore di fare ampio uso di simboli e di scatenare la propria indole visionaria. L'atipica autoanalisi del protagonista che, abbiamo visto, passa dal confronto coi drammi collettivi ma dal rifiuto tendenziale di quello verbale col prossimo, trova soluzione nel ricongiungimento con l'amata Basia/Beatrice in un finale di grande suggestione.
Si possono muovere diverse accuse a "Onirica": formalismo, intellettualismo, autoreferenza. E derivazione: a livello iconografico, alcune scelte non sono originalissime, come il far rivivere i morti con i segni dell'incidente stampati sul volto insanguinato, o le "belle statuine" in chiesa e nel bosco. Non ci sottraiamo al divertente azzardo dello scovare gli eventuali antesignani e puntiamo le nostre
fiches principalmente sull'ultimo Tarkovskij.
Le critiche, insomma, sono fondate. Tuttavia, ci piace lasciarci ammaliare da un cinema che non ha paura del confronto con riferimenti altolocati e rifiuta le convenzioni di linguaggio, riuscendo talvolta a spiazzare con soluzioni di regia tanto ardite quanto folgoranti.
Co-prodotto e distribuito dalla rediviva Cecchi Gori Home Video.
*Intervista rilasciata a Film Tv, n.15 anno 2014
19/04/2014