La figlia, di dieci anni circa, gli chiede di andare con lui allo stadio. Jahar Panahi risponde che non le è concesso. Lei insiste. Insieme arrivano ai cancelli, i gendarmi non la fanno passare. Il padre entra, ma dopo un po' la figlioletta riesce a raggiungerlo. Poiché c'è sempre un modo per farcela. Un modo per aggirare quelle norme che, secondo l'interpretazione del regime, impediscono a metà del popolo - alla metà costretta a stare dietro una linea più o meno immaginaria, per non finire in fuorigioco - di partecipare a uno dei rari eventi di unità per tutti gli iraniani: la partita di calcio, soprattutto se è quella della nazionale. Un evento tale da far sì che tifosi morti nella calca siano ricordati quasi come degli eroi. Paradossalmente, il governo ostacola il patriottismo.
L'episodio frulla nella testa del regista finché, in corrispondenza del match decisivo per la qualificazione dell'Iran ai mondiali di Germania 2006, decide di farci un film, girato in tempo reale con un originalissimo miscuglio di vero documentario e di finzione, nonostante le consuete difficoltà per ottenere i permessi a causa della presenza femminile nel cast, composto interamente da attori non professionisti. In Iran non è mai stato proiettato, all'estero è uscito cinque anni fa, in Italia ci ha pensato il mercato, a censuralo. Esce nel 2011 con colpevole ritardo, viste la qualità e l'importanza di film (Orso d'Argento a Berlino) e regista. Il sospetto è che si tratti più di sfruttare economicamente la difficile situazione giudiziaria di quest'ultimo, che di offrirgli un doveroso omaggio e un supporto.
Ed esce quando ormai il cinema iraniano, seguendo l'esempio di Panahi, è tornato prepotentemente nelle città. I tempi son cambiati, i desideri frustrati non riguardano solo i bambini delle zone agresti, ma anche gli adolescenti e gli adulti, donne e uomini, che abitano le aree urbane; il Nostro se ne è accorto almeno dai tempi de "Il cerchio", oggi il suo esempio lo ritroviamo in tanti film connazionali, da "I gatti persiani" a "Tehroun" a "Green Days" e in tanto cinema realizzato in medio oriente (come nel caso dell'ultimo vincitore del Carthage Film Festival, l'egiziano "Microphone" del trentaduenne Ahmad Abdalla).
Se le pulsioni popolari e giovanili sono esplose nei recenti moti di piazza, un cinema fresco e rinnovato aveva già cominciato a raccontarle. Panahi, in special modo con "Offside", è il pioniere ideale di questa ennesima Nouvelle Vague.
A cogliere la voglia di trasformazioni sociali, invero ancora latente nel 2006, è una riflessione lungo un continuum di unità nazionale e, al contempo, di almeno tre evidenti contraddizioni interne. In primis, ovviamente, quella di genere. La condizione femminile è, nella Repubblica Islamica, la più problematica. Le ragazze del film, non intendendo essere escluse dal rito collettivo del calcio (che spesso sfocia in partecipatissime manifestazioni), sono costrette a negare la loro identità di donne travestendosi da uomini; una femminilità spiccata rende ancora più complicata la riuscita di un'impresa al contrario alla portata di chi ha un aspetto mascolino.
Ma un'altra frattura evidente è quella generazionale, se è vero se il film si apre con un uomo che cerca sua figlia, diretta allo stadio anziché a scuola; tempo dopo riesce a trovarla - è tra le ragazze catturate - ma non può condurla con sé. Si allontana mesto, sullo sfondo, non esultando al goal dell'Iran, metafora di una vecchia generazione che non riesce a tenere a freno quella nuova, cui dovrà prima o poi cedere il passo, da cui è già separata.
E vi è infine la contraddizione città/campagna, con il soldato proveniente da quell'area rurale che è il principale bacino di consenso per il partito conservatore di Ahmadinejad e che è incapace di comprendere la modernità e le aspirazioni della metropoli (e della capitale in particolare).
Per catturare al meglio una realtà così articolata, Panahi dà fondo al proprio repertorio: mobilissima macchina a mano prossima ai personaggi, interruzione "brechtiana" - all'interno dell'unità temporale (non a caso il film dura novanta minuti) - della continuità d'azione attraverso elementi drammaturgici di disturbo, ampio ricorso al fuori campo, uso scenografico dei piccoli oggetti. In più, opera un grande lavoro sulla modulazione dei suoni, da momenti di relativa quiete ad attimi di assordante frastuono, nei rari casi in cui anche la nostra attrazione per il calcio è appagata da scampoli di partita, con una luce accattivante che interviene a illuminare lo schermo. Offerte agli spettatori con la giusta parsimonia, sono sequenze da pelle d'oca. Di eccezionale bravura. Le migliori, assieme a quella nei bagni pubblici.
Cinque anni fa "Offside", malgrado la messa al bando in patria, aprì un dibattito presso le alte cariche politiche e il Presidente, grande appassionato di calcio, meditò di concedere alle donne l'ingresso negli stadi. Purtroppo il cinema non basta a cambiare il mondo, e il clero conservatore bloccò la riforma. Oggi, ci possiamo chiedere se Panahi, con ciò che sta passando, girerebbe ancora un film in cui ragazze ammanettate scherzano tra loro e si fanno beffe dei militari, o se piuttosto tornerebbe alla cupa oppressione rassegnata de "Il Cerchio". I sette minuti del recente "The Accordion" testimoniano di un cineasta che, nonostante tutto, non ha ancora ceduto a una rabbia fuori controllo, ma mantiene una ottimistica e solidale umanità.
regia:
Jafar Panahi
distribuzione:
Bolero Film
durata:
88'
produzione:
Jafar Panahi Film Productions
sceneggiatura:
Jafar Panahi, Shadmehr Rastin
fotografia:
Rami Agami, Mahmoud Kalari
scenografie:
Iraj Raminfar
montaggio:
Jafar Panahi
musiche:
Yuval Barazani, Korosh Bozorgpour