Cinema e sovversione: l'attività filmica in Carmelo Bene
Personaggio estremamente eccentrico, uomo di teatro e regista dai caratteri unici, Carmelo Bene è stato insieme irriverente eppure colto nella scelta dei modelli prescelti. Estremamente provocatorio verso il pubblico e la critica, nell'usare il medium teatrale, cinematografico, e infine televisivo, è stato capace di strutturare un sistema estetico e filosofico del tutto coerente. Inoltre, elettivamente anti-tragico, in lui è stata dominante la negazione dell'eroismo nella sua declinazione italica, che da sempre è dominata da un quiescente patetismo. Nel rapportarsi allora con la tradizione, la storia patria, ma anche quella coeva, la vena distruttiva prevale, utilizzando la diffusa irrisione dei miti passati e presenti, come forma costante di problematizzazione della realtà circostante.
In particolare, nella sua attività Bene fu teorico del nulla, estremamente nichilista e in questo tangente il sublime, negando il cinema come mezzo di comunicazione di massa per elevarlo ad esperienza puramente iconica e insieme fortemente critica. Allora, l'uso stesso della cinepresa prescinde le precedenti convenzioni, l'immagine attraverso il fotogramma è astratta, esulando la registrazione di fatti, di azioni, di contesti geografici e temporali per farsi scevra dall'intento diegetico; in questo modo Bene intende negare le fondamenta stesse della trasmissione di un concetto attraverso il visivo, per giungere alla "cecità dell'immagine". D'altro canto, la sua carriera stessa è indicativa della peculiarità del rapporto dell'autore con la settima arte: limitata a un pugno di anni (dalla fine dei 60 e la prima metà dei 70) e a soli cinque lungometraggi ("Nostra Signora dei turchi", 1968; "Capricci", 1969; "Don Giovanni", 1970; "Salomè", 1972; "Un Amleto di meno", 1973), un cortometraggio ("Hermitage", 1968) e qualche sperimentazione minore; la ricerca sviluppata in tale sede si esaurì con "il ciclo della dépense", che lui stesso definì "sublimi insensatezze disseminate propriamente in terra del Sud" (vd. Bene Carmelo, Opere con l'Autografia di un ritratto,1995).
"Nostra Signora dei turchi", ovvero della dissipazione del soggetto nella totale perdita di senso
Film a basso costo, privo di tradizionale sceneggiatura e inizialmente girato in 16mm (poi gonfiato in 35mm presso la Microstampa), "Nostra Signora dei turchi" era originariamente scaturito dal progetto di creare tre cortometraggi nel Salento per Giorgio Patara. La prima versione prevedeva una durata di 160 minuti, ma quella attualmente in circolazione deriva dalla sua riduzione (125') per la XXIX Mostra del Cinema di Venezia (in cui ha vinto il Premio speciale della giuria). Il soggetto, sempre a opera di Bene, è stato concepito dall'autore in diverse varianti, una letteraria, una filmica e due teatrali (quella messa in scena nel 1966 e quella del 1973).
La trama, pressoché inesistente, s'incentra sulla compenetrazione tra contemporaneità e passato, esperienza personale del regista e leggendaria invasione dei Turchi del Sud Italia nel XV secolo. In apertura le riprese del palazzo Moresco e dell'ossario nella Cattedrale di Otranto fungono da escamotage per dare inizio alla narrazione dello sbarco turco in terra italica e del massacro di numerosi cristiani; l'inquadratura del teschio di un martire e la sovrapposizione dell'immagine del volto di Bene è allora l'espediente con cui è realizzata la fusione delle due diverse realtà temporali, innestando così nello svolgimento il presente rappresentato dalla villa paterna a Santa Cesarea Terme. È in questo contesto che Bene, regista-attore su cui si struttura l'intera macchina scenica, da vita a un susseguirsi di performance in cui si immedesima in differenti personaggi. Nella prolificazione di numerosi alter ego il protagonista pone in discussione l'unicità del suo io, che si confonde con i suoi doppi, in un gioco di riferimenti parodici a tipi filmici (il gangster), letterari (il cavaliere e il martire) e antropologici (lo scrittore, il frate vecchio e il frate giovane). La narrazione procede dunque per sconnessi quadri tematici, il cui punto di contatto e di contingenza è il rapporto con il sacro, presentato con la reiterata presenza di una icona cristiana, Santa Margherita, interpretata da Lydia Mancinelli. Qui subentra un dialogo parodiato col sacro, che si unisce all'irrisione del mito e del quotidiano, nella ricerca del nulla, della apoteosi dell'inettitudine dell'uomo, perfettamente realizzata nella sequenza del "monologo dei cretini". La ridicolizzazione dell'umano e del divino si identifica allora nell'interpretazione di Bene stesso, che in un susseguirsi di gesti e travestimenti cerimoniali, volutamente goffi e privi di senso, mira in realtà alla banalizzazione del rito e dell'agire umano stesso, ponendone in evidenza l'assenza di significato. Non solo l'azione, ma anche l'identità del soggetto stesso, sia nella sua fisicità che nell'interiorità, è vanificato in un processo di disgregazione dell'io tramite l'assunzione casuale di molteplici personalità grottesche. La presa di distanza dal sé, la sua disgregazione, non concerne però solo il movimento, ma pertiene anche il linguaggio: il racconto è sviluppato in voice over, in terza persona e all'imperfetto, mentre il doppiaggio è deliberatamente in asincrono, definendo così un'ulteriore separazione tra la voce narrante e l'attore che la personifica.
Strutturata quindi come commedia dell'assurdo e del tutto autoreferenziale e precludendo ogni sequenzialità logica, il film procede per tematici sconnessi, come flusso continuo in cui i nessi causali e diegetici implodono, realizzando così l'appiattimento totale dei confini geografici e cronologici e determinando una distorsione percettiva.
Parodia e annullamento del significato: contaminazione, dissipazione dell'attore e immagine muta
La pellicola di Bene si basa dunque sulla privazione di ogni capacità di comunicazione di significato sia dell'impianto filmico che dell'immagine registrata all'interno del singolo fotogramma attraverso un processo parodico sviluppato a tre livelli: tramite la citazione intertestuale, con la performance attoriale e infine con gli strumenti tecnici propri del medium specifico.
In primo luogo la destrutturazione semantica si avvale del susseguirsi di riferimenti che, attraverso un processo di contaminazione, ripropongono brandelli di fonti depotenziati e fusi in maniera caotica. La riscrittura continua di testi altrui, la cui origine è volontariamente occultata, prevede che le citazioni siano anarchicamente assemblate per eliminarne il valore originale, nella negazione del percorso di significazione. Dunque, tramite l'uso incongruo di variegati modelli, vengono ridicolizzati l'aulico, l'eroico, reinvestendo il conosciuto di inatteso e, come constata Gilles Deleuze, sono ricercati in tal modo l'effetto di straniamento, la presa di distanza dai miti presenti e passati e così istituita una forma arguta di critica alle ideologie. Lo spettatore dal canto suo è esulato da qualsivoglia comprensione del testo, da ogni attività fatica, essendogli reclusa la comprensione e giungendo così alla trasmissione di un'immagine totalmente muta.
Inoltre si assiste alla privazione di valore anche della parte recitativa con la dissipazione della fisicità degli interpreti su più piani. I movimenti del corpo e del viso sono del tutto espropriati del loro convenzionale potere narrativo o comunicativo: da una parte l'azione, ormai del tutto casuale, è privata di ogni senso logico, aspetto che discende dalla precedente pratica teatrale; dall'altra la mimica facciale è vanificata tramite il trucco bianco, come uno spesso strato di biacca, il maquillage eccessivo, le molteplici fasciature e la compressione di più volti insieme con l'uso di specchi. A questo si aggiunge la propensione ai primi e primissimo piani, che sospendono il senso di profondità e annullano i volumi e l'unità tra gestualità corporea e espressioni del volto. Anche il dialogo subisce il medesimo fenomeno di disgregazione: il doppiaggio fuori sincrono fa sì che vi sia discordanza tra la parola udita e minata sulla bocca, creando così la percezione che la voce sia staccata dal corpo e disfacendo ulteriormente l'identità attoriale sulla scena.
Infine anche il montaggio e l'uso della cinepresa sono lontani dal seguire un principio narrativo o imitativo, destinati all'ottenere una sensazione di musicalità delle immagini attraverso il ritmo e i caratteri delle inquadrature, sia con gli stacchi tra di esse e i movimenti di macchina, sia ex post con il montaggio delle sequenze. Essa agisce altresì in funzione della performance dell'attore, rendendone il movimento corporeo nello spazio attraverso la cinepresa a mano, che permette spostamenti più agili. Inseguendo il soggetto, tuttavia, invece di riprodurne linearmente l'azione, la camera ne registra il movimento secondo un principio di straniamento; a tal riguardo il frequente ricorso al reframing, non assecondando il convenzionale ravvicinarsi dell'inquadratura al fine di centrare l'oggetto, il corpo, risulta invece volontario decentramento. Infine le sfocature attraverso i filtri, l'uso delle panoramiche e del montaggio in senso alienante concorrono a intensificare ulteriormente il senso di smarrimento visivo. Ciò che si crea è un ritmo, a volte sconnesso e poco armonioso, ma dove è la musicalità a conferire struttura alla pellicola e non l'utilizzo razionale del fotogramma a fini narrativi, giungendo così a una peculiare forma di iconoclastia filmica, in cui è bandita l'emulazione del reale attraverso il girato. La via dell'astrattismo è tuttavia in questo caso, più che come scelta vacuamente stilistica, una presa di posizione ideologica contro la volgarità della immagine nel mondo della comunicazione massificata.
Grazie alla la peculiarità della ricerca linguistica e al conseguimento di un anomalo percorso critico, "Nostra signora dei Turchi" e più in generale le pellicole di Bene non rientrano in nessun genere di classificazione e tendenza, come constatato da Gian Piero Brunetta (cfr. Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta 1960-1993, 1993), divenendo così esempio unico e una tappa imprescindibile della sperimentazione filmica in territorio italico.
Bibliografia
Bene C., Contro il cinema, Minimum fax, Roma 2011.
Bene C., Opere con l'Autografia di un ritratto, Bompiani, Milano 1995.
Bene C., Deleuze G., Sovrapposizioni, Feltrinelli, Milano 1978.
Saba C. G., Carmelo bene, Editrice il Castoro, Milano 1999.
Brunetta G. P., Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta 1960-1993, Editori Riuniti, Roma 1993
cast:
Carmelo Bene, Lydia Mancinelli, Salvatore Siniscalchi, Anita Masini, Ornella Ferrari
regia:
Carmelo Bene
durata:
124'
produzione:
Carmelo Bene
sceneggiatura:
Carmelo Bene
fotografia:
Mario Masini
scenografie:
Carmelo Bene
montaggio:
Mauro Contini
costumi:
Carmelo Bene
musiche:
Mauro Contini