Come far trasparire la nostalgia, anzi, la malinconia per la nostalgia? Se lo deve essere chiesto il regista franco-vietnamita Tran Anh Hung, giunto al suo quinto lungometraggio, trovandosi di fronte all'onere di dover dirigere il film basato sul romanzo più celebre del nipponico Murakami Haruki. Romanzo di culto per più generazioni di lettori, quel "Norwegian Wood" che in Italia apparve per la prima volta col titolo di "Tokyo blues", inquadra il racconto del suo alter-ego, Watanabe Toru, in un lunghissimo e fittizio flashback, il ricordo di un uomo di trentasette anni che riascoltando una canzone dei
Beatles ("
Norwegian wood", appunto) ricorda un periodo fondamentale della sua vita, quando tutto gli sembrava vicino, reale e di massima importanza.
Tran, eliminando la cornice, ambienta le vicende direttamente nella Tokyo sessantottina. Eppure la voce fuori campo del protagonista (Ken'ichi Matsuyama) che cerca di fornire ragguagli sui rapporti tra lui e Kikuzi o Naoko si presenta assidua, soprattutto nella prima parte, così da creare un distacco rispetto al tempo del racconto. Il regista potenzia poi a dismisura il reparto figurativo: scenografie e costumi, valorizzati dalla fotografia di Ping Bin Lee sono composti per calibrati abbinamenti cromatici; la costante ricerca che dedica ai dettagli sono il suo modo per far trasparire la lontananza temporale. Alla cura dell'immagine si coordina un lavoro certosino di
sound design: i personaggi spariscono dietro i colori, sono puntini su uno sfondo innevato, sono immersi e coperti dalla natura, parlano ma forse la voce non arriva a essere sentita, a causa dei tuoni, dello scroscio della pioggia, del soffiare del vento. La tessitura dei colori, la fotografia di Ping, insieme all'estetica pittorica di Tran, la cui regia procede per virtuosismi (piani stretti, piani sequenza, ampie panoramiche sui boschi di Kyoto), fan sì che il film appaia come un continuo susseguirsi di istantanee della vita di Watanabe.
Allora può un film così curato, risultare freddo e apatico? Evidentemente sì. La dispersione di attenzione porta a un esercizio di laccata calligrafia in cui, tentando di normalizzare la narrazione ellittica di Murakami, si finisce per pagare pegno al voler anche essere fedeli alla fonte originaria.
Non è questo il caso di "lavoro su commissione", visto che Tran Anh Hung ha accarezzato l'ipotesi della produzione di questo film da quando aveva letto il romanzo nel 1994 e per quattro anni ha corteggiato Murakami, fino a riuscire a ottenere il suo consenso per l'adattamento.
Sul piano del racconto risulta evidente che a Tran interessasse quasi soltanto la questione sentimentale e in particolar modo il rapporto complicato con Naoko, fidanzata del migliore amico di Toru, Kikuzi, e rimasta sconvolta dal suicidio di quest'ultimo. La sua depressione, che si trasformerà in schizofrenia, sacrifica in minutaggio il resto dei personaggi che pure compaiono anche se per poco tempo: in particolare, vengono penalizzati la vitale Midori e il rapporto d'amicizia con Nagasawa, che nel film è ritratto come uno scontato e antipatico stronzetto di buona famiglia. In tal modo si svilisce la complessità drammatica dei personaggi e si manca l'appuntamento col mutamento interiore del protagonista: se il film è essenzialmente un'educazione sentimentale e se, nell'ultima parte, per spiegare cosa sta succedendo a Watanabe, vi è bisogno di ricorrere nuovamente alla voce fuori campo, significa che in fase di scrittura qualcosa è andato storto. Significa che l'attenzione al particolare descritta prima non è stata propedeutica a un'idea cinematograficamente compiuta, ma viatico per far sparire i centri nevralgici dell'opera in mezzo all'arredamento
vintage.
Per comprendere gli errori che hanno svuotato "Norwegian Wood", rendendolo una bella cornice senza figure, basterebbe cogliere l'essenza del monco sviluppo di Reiko (Reika Kirishima): il personaggio è così tagliuzzato (fa praticamente solo da badante a Naoko), da far apparire come superfluea, se non completamente priva di senso, la sequenza della notte d'amore trascorsa con Watanabe. Concludendo il discorso sulle donne della pellicola, se è ottima la sofferta Naoko di Rinko Kikuchi, la limitata Kiko Mizuhara, una modella che ci fa capire di saper sorridere ma che non sa sottolineare lo scarto di complicità tra compagna e possibile amante, appiattisce un personaggio già sacrificato dall'impostazione narrativa.
Nonostante alcune bellissime immagini, accarezzate dalle dissonanze di
Johnny Greenwood e movimentate dai pezzi dei
Can, "Norwegian wood" di Tran Anh Hung è un boccone amaro da digerire, una grande occasione seppellita da anestetica neve.
08/10/2011