Prima di affrontare la visione di "Io non sono qui", quarto lungometraggio di Todd Haynes, sarebbe consigliabile mettere su un piccolo rito che aiuterà lo spettatore a entrare meglio nel film: vedere lo straordinario documentario di Martin Scorsese "No Direction Home: Bob Dylan", e ascoltare almeno uno dei capolavori del cantautore del Minnesota ("Blonde On Blonde" rappresenterebbe la scelta più pertinente).
Difficile ad ogni modo porsi al cospetto di questo film. Se il lucido, appassionante, illuminante documentario di Scorsese tracciava un bilancio dell'arte dylaniana dal '59 al '66, inglobando un discorso complesso e non banale sulla società statunitense dell'epoca, "Io non sono qui" si pone altri obiettivi: quelli che prevedono l'indossare gli abiti di colui che non ha intenzione di prefiggersi obiettivi. Alla base della pellicola vi è difatti una libertà espressiva tanto ariosa da lasciare spiazzato lo spettatore. Haynes utilizza citazioni cinematografiche per situarle in una visione molto personale di cinema, rischiando e vincendo la sua scommessa.
"Io non sono qui" non ha nulla del biopic tradizionale, e la premessa iniziale parla chiaro: "ispirato alle molte vite di Bob Dylan".
Il mosaico è così composto:
"Tutti siamo Bob Dylan", dunque sei diversi personaggi interpretati da sei attori, ognuno dei quali ha un diverso nome (nessuno è omonimo della figura che aleggia sul film), compreso un bambino di colore e una donna. Ogni personaggio dovrebbe più o meno ricordare una fase della vita di Dylan:
- Woody, il menestrello che viene dal sud
- Arthur, il poeta visionario
- Jude, il giuda della svolta elettrica
- Robbie, la grande star del cinema
- Jack/Pastore John, il predicatore evangelico
- Billy, il cowboy solitario
Le carte sono scomposte, il montaggio frammentario e sconnesso, lo stile visivo cambia da capitolo a capitolo (e non solo per l'alternarsi del colore con il b/n) e la narrazione non bada certo a linearità e fedeltà storica, sebbene siano evidenti i rimandi politici: il Vietnam, certo, ma ritroviamo ombre sia di Kennedy che di Nixon. E riesce a essere politico suggerendo di come la società sia riuscita spesso ad assorbire l'arte musicale, evidenziando, a questo proposito, la grandezza di Dylan, che quando ha voluto è riuscito invece a scappare via da danni sociali, finendo, a un certo punto, con l'isolarsi dal resto del mondo. Dylan non è mai stato un personaggio politico, ci sembra di udire, o meglio: lo è sempre stato, ma è la politica che ha seguito il suo fantasma, piuttosto che lui stesso spirito sociale (ed in questo ragionamento escludiamo i suoi primi passi da professionista, ovvio).
Vediamo dunque dal bambino Woody (Guthrie= l'idolo del piccolo Bob), novello Huckeberry Finn, piccolo uomo delle grandi pianure rurali alla ricerca di una stella polare. Si comincia con movimenti picareschi da videoclip metafisico e si finisce realisticamente sul commovente letto di morte di Woody Guthrie.
Troviamo, poi il Dylan-Rimbaud, e le sue imprendibili parole che pesano come macigni.
La prima sequenza che vede la coppia Bob-Heath Ladger e la Gainsburg ricorda molti film di Godard sulla coppia, come "La donna è donna", "Il maschio e la femmina", e la conferma si ha quando lei legge un libro in primo piano frontale: immagine che riprende in assoluto la Karina in "Questa è la mia vita", ma che è anche un topos godardiano. E il loro ultimo momento di intimità, sulle note di "Idiot Wind", sa essere straziante. Ad ogni modo, il frammento più tradizionale del lotto.
Con il Dylan interpretato da Christian Bale, invece, Haynes si serve di un meccanismo da mocumentary. Tra un Julianne Moore/Joan Baez che ricorda il travagliato percorso del suo ex amato e un Dylan ritiratosi dal suo originario mondo, una chicca cinematografica degna di nota: la sequenza in cui vengono inquadrati dall'alto ombrelli colorati che sfilano per la strada e la mdp stringe per inquadrare Bob/Christian mentre ha una visione di tre angeli. Gli ombrelli dall'alto è un immagine che riprende esattamente quella dell'incipit de “Les Parapluies de Cherbourg”.
Il Dylan che si avvia all'età avanzata, interpretato da un dimesso Richard Gere, è un ideale ibrido tra il Billy the Kid di Peckinpah (1972) e le storie delle canzoni di "John Wesley Harding" (1967) e "The Basement Tapes" (album registrato nel '67 con la Band, ma distribuito solo nel '75).
Ma tutta la sequenza di Bob-Richard Gere, ambientata in Missouri, è da indicare come western anomalo (come fu all'epoca il "Dead Man" di Jarmusch), rievoca "Big Fish" di Burton, ma anche "Fratello dove sei?" dei Coen : una rivisitazione del mito americano in chiave favolistica e circense. E anche questo frammento, che non si poggia su alcun piedistallo narrativo, inanella momenti musicali da brivido (valga per tutti il modo in cui è messa in scena la funebre "Goin' To Acapulco").
I momenti più alti del film sono però quelli che vedono il one-woman-show di Cate Blanchett. L'attrice riesce nel miracoloso compito di fornire una prova che allo stesso tempo non cerca la mimesi dell'attore che prova a copiare la fonte primaria. Nessuna intenzione di imitare Dylan, ma una chiave di lettura personale, che riesce ad essere allo stesso tempo profondamente dylaniana pur appartenendo a se stessa. Una prova attoriale stupefacente.
Presenze felliniane: la festa è popolata di individui bizzarri, apparizione di Coco che sembra camminare levata da terra come la Cardinale in “8 e mezzo”, il Jude attaccato a un filo che volteggia nell'aria come se fosse un palloncino, la sequenza iniziale del capolavoro felliniano, esplicitamente citata, il sottofondo della musica del "Casanova".
Ma non finisce qui: la tarantola che sullo sfondo echeggia quella di "Persona" di Bergman, la libertà della nouvelle vague e del free cinema inglese: la scena dei Beatles che giocano con Bob per poi scappare inseguiti dalle fan guarda direttamente a "Tutti per uno" di Lester.
Ed è la Blanchett che si arma di mitra per mettere al tappeto il pubblico di veri giuda, che attacca con "Maggie's Farm" una marcia elettrica ed elettrizzante squarciando ogni atmosfera che si adagiava su proteste non davvero di rottura. Torna a questo punto in mente anche il bel documentario di Pennebaker "Don't Look Back", cronaca della tournée inglese del 1965 di Bob Dylan.
Tra apparizioni di Ginsberg e dei Beatles, un vortice inarrestabile e geniale di visioni difficilmente dimenticabili.
"I'm not there" è il titolo di un traditional americano che Bob Dylan incise con la Band nel 1967 nelle session per "The Basement Tapes", brano poi omesso dalla scaletta definitiva dell'opera (riesumato poi anni dopo in "The Basement Tapes Sessions", che include tutte le incisioni della famosa collaborazione).
Una canzone che non c'è dunque, e che forse non c'è mai stata. Così come Dylan: sei personaggi in cerca d'autore che sembrano spiegare l'impossibilità di trovarlo davvero. Fin dal principio vediamo un tentativo di vivisezionare il Dylan vittima del famoso incidente motociclistico. Missione fallita: Dylan è personaggio tanto geniale quanto sfuggente. Lo si può provare a raccontare, mai a spiegare. E fortunatamente Todd Haynes nemmeno ci prova, risulta arduo (fin presuntuoso?), ma comunque sorprendente, geniale, probabilmente memorabile.
* Uno speciale ringraziamento a mio fratello Donato.
Colonna Sonora:
All Along The Watchtower (Eddie Vedder & The Million Dollar Bashers)
As I Went Out One Morning (Mira Billotte)
Ballad Of A Thin Man (Stephen Malkmus & The Million Dollar Bashers)
Billy (Los Lobos)
Can You Please Crawl Out Your Window (The Hold Steady)
Can't Leave Her Behind (Stephen Malkmus & Lee Ranaldo)
Cold Irons Bound (Tom Verlaine & The Million Dollar Bashers)
Dark Eyes (Iron & Wine & Calexico)
Fourth Time Around (Yo La Tengo)
Goin' To Acapulco (Jim James (of My Morning Jacket) & Calexico)
Highway 61 Revisited (Karen O (of Yeah Yeah Yeahs) & The Million Dollar Bashers)
I Wanna Be Your Lover (Yo La Tengo)
I'm Not There (Bob Dylan)
I'm Not There (Sonic Youth)
Just Like A Woman (Charlotte Gainsbourg & Calexico)
Just Like Tom Thumb's Blues (Ramblin' Jack Elliot)
Knockin' On Heaven's Door (Antony & The Johnsons)
The Lonesome Death Of Hattie Carroll (Mason Jennings)
Maggie's Farm (Stephen Malkmus & The Million Dollar Bashers)
Mama You've Been On My Mind (Jack Johnson)
The Man In The Long Black Coat (Mark Lanegan)
Moonshiner (Bob Forrest)
One More Cup Of Coffee (Roger McGuinn & Calexico)
Pressing On (John Doe)
Ring Them Bells (Sufjan Stevens)
Señor (Tales Of Yankee Power) (Willie Nelson & Calexico)
Simple Twist Of Fate (Jeff Tweedy (of Wilco))
Stuck Inside Of Mobile With Memphis Blues Again (Cat Power)
The Times They Are A Changin' (Mason Jennings)
Tombstone Blues (Richie Havens)
When The Ship Comes In (Marcus Carl Franklin)
Wicked Messenger (The Black Keys)
You Ain't Goin 'Nowhere (Glen Hansard & Markta Irglov)
I Dreamed I Saw St. Augustine (John Doe)
I Million Dollar Bashers, sono una band formata per l'occasione, comprendente: il chitarrista dei Sonic Youth Lee Ranaldo e il batterista degli stessi, Steve Shelley, il bassista di Bob Dylan, Tony Garnier, Tom Verlaine (ex leader dei Television), il tastierista John Medeski (de i Martin, Medeski and Wood), il chitarrista Smokey Hormel (un tempo chitarrista di Beck e di Tom Waits, poi negli Smokey & Miho) e il chitarrista dei Wilco, Nels Cline.
cast:
Charlotte Gainsbourg, Julianne Moore, Marcus Carl Franklin, Ben Winshaw, Heath Ledger, Richard Gere, Christian Bale, Cate Blanchett
regia:
Todd Haynes
titolo originale:
I'm Not There
distribuzione:
BIM
durata:
135'
sceneggiatura:
Todd Haynes, Oner Moverman
fotografia:
Ed Lachman