Che la danese Susanne Bier, nonostante la ferrea adozione alle regole del movimento "Dogma", fosse una tenerona lo sapevamo già, e il suo esordio americano (sotto l'egida di Sam -"American Beauty" - Mendes, qui produttore) non fa che rimarcarlo (Von Trier approverebbe?).
Certo, lo stile è sempre quello da autrice impegnata, con immagini sfocate e tanti primi piani sugli occhi degli attori, ma la sostanza non potrebbe essere più
hollywoodiana.
La sceneggiatura di Allan Loeb ("21") nella prima parte mescola le carte, e interseca con molta libertà diversi piani temporali, confondendo e straniando lo spettatore, e rimandando, in un certo modo, allo stile di Iñárritu e del suo sceneggiatore Arriaga. Ma pare, soprattutto, un espediente per rendere i personaggi più profondi e interessanti di quello che sono. Perché, in definitiva, di storie di dolore e redenzione come quella di questo "Noi due sconosciuti" (orrido titolo italiano) ne abbiamo già viste tantissime. Ma se lo spettatore cinico che c'è in noi ci fa storcere il naso quando la Bier, per far scendere la lacrimuccia, mette in scena due adorabili bambini, è innegabile che il film, entro certi limiti, funziona.
E se funziona è in gran parte per merito della straordinaria coppia di protagonisti: Halle Berry (sempre convincente nel versante drammatico) e Del Toro sanno infondere ai loro risaputi personaggi un'aurea di credibilità, un vitalismo che li rende umani e concreti. Lo spettacolo d'attori è solido, e la sceneggiatura (saggiamente) punta tutto sulle loro sfumature, lasciando crescere i personaggi lentamente, facendo parlare gli sguardi, affidandosi a momenti improvvisati e sinceri (la cena tra amici dopo la morte di Brian). Ottimo e misurato anche David Duchovny, che piacerebbe vedere più spesso sul grande schermo.
Certo, la Bier non riesce mai ad essere davvero cattiva. Non lo è quando descrive la dipendenza dall'eroina di Jerry (nemmeno una sequenza che lo mostri esplicitamente mentre assume le droghe), e non potrebbe optare per soluzioni più facili quando racconta la vita da vedova di Audrey.
Per non parlare della benevolenza
disneyana con cui tutto il quartiere (appartenente alla Seattle altolocata) e la famiglia della protagonista accolgono in casa un tossicodipendente.
Il titolo originale del film è anche quello di uno splendido album dei
Low, "Things We Lost In The Fire", e allude alle cose che Audrey e il marito Brian hanno perduto nell'incendio del garage. La morale è didascalica ma allo stesso tempo efficace: le cose bruciano, ma noi siamo ancora qui, ed è questo l'importante. "
Accetta quello che c'è di buono" è la frase chiave della pellicola. E potrebbe essere un invito anche per lo spettatore. Accettiamo quindi quello che di buono propone il film della Bier.