"Se non so cosa fare da grande, è perché la mia vita è bella e non voglio che cambi". Non appena Maxime Godart porta gli occhi a favore di camera, è come se un cerino si accendesse fra due bui. Da una parte le mille cantilene imparate da mamma e papà a proposito del tuo futuro, dall'altra un radioso passato in cui sei stato nient'altro che il piccolo Nicolas. È proprio in questa penombra, che si muove la macchina da presa di Laurent Tidard. Un viaggio a ritroso che pennella di smagliante
technicolor le ombre minacciose dell'infanzia, con le sue grandi fantasie che la difendono dal mondo, e le piccole crudeltà che ti preparano ad abbandonarla per sempre.
Nato dall'estro di quel René Goscinny che già diede i natali ad Asterix e Lucky Luke, "Le petit Nicola"s fece la sua prima comparsa in Francia alla fine degli anni Cinquanta. Ma di quel bimbo che raccontava in prima persona le sue avventure in una serie di racconti illustrati, Tidard non ha avuto sentito il bisogno di ritoccare che poche virgole. Nel tenere immutato il contesto originario, trascegliendo dall'infinita aneddotica del fumetto squarci e bozzetti che accompagnano felicemente il
plot principale, il regista transalpino cresciuto a pane e Spielberg alla New York University, compone con mano leggera un minuzioso mosaico in cui ciascuna tessera finisce al posto giusto. Merito di uno
script calibrato al millesimo, capace di piegare il canonico dramma in tre atti in soffici spire
truffautiane, sulle tracce di un sentiero che a suo tempo, scagliò la folgore della
nouvelle vague sul traguardo della Hollywood-Parigi.
In un mondo in cui tutto deve apparire come non è, dove la mamma (Valèrie Lemercier, straordinaria nell'esilarante cena con i Moucheboume) finge di conoscere a menadito i versi di un vattelappesca scandinavo dal nome impronunciabile, e il padre (Kad Mèrad, già visto in "Giù al Nord") è un
travet smanioso di imporsi all'attenzione del capo nelle mentite spoglie di un paludato
bourgeois, Nicolas non può che credere che la verità sia nascosta in ciò che appare: i suoi genitori lo abbandoneranno presto in un bosco, perché un nuovo fratellino prenderà il suo posto. La buffa letterina di ringraziamento che il padre detta sussiegoso al figlio per ottenere le attenzioni del megadirettore Moucheboume è in questo senso il cuore rivelatore della pellicola: l'accesso al
logos che è peculiare della figura paterna si svela a Nicolas come improntato alla doppiezza e ambiguità. La falsificazione della parola, ora declinata in chiave ironica ("Non ti sposare mai", dice Merad al ragazzino), ora iscritta in una pomposa gravità, getta Nicolas nella diffidenza. Il sospetto e il dubbio alimentano, come in ogni fiaba dell'infanzia, l'immaginario che corre in parallelo alla realtà. E qui, in soccorso di Pollicino-Nicolas, accorrono i compagni di scuola, a scongiurare un finale temuto.
C'è Agnan, il piccolo lacchè saputello che miete bei voti a scapito di colleghi meno dotati, e c'è Clotaire, svogliato e bersagliato da tutti, che troverà un dolce riscatto alla presenza del ministro. Sullo sfondo, attenuato ma non per questo meno prezioso, c'è il rampantismo della piccola borghesia del tempo, l'emancipazione della donna (la mamma di Nicolas, perfetta casalinga che sogna di imparare a guidare l'auto e di diventare colta) e la piccola cappa oppressiva dell'istituzione scolastica, mai troppo calcata grazie a una squisita levità. Sottotesti
lacaniani scorrono prepotenti entro il lieve involucro che Tidard confeziona in duplice copia: una, deliziosa destinata agli occhi e al tatto dei bambini, grazie ai colori pastello spruzzati dalla fotografia di Denis Rouden; l'altra, destinata agli adulti, capace di irretire l'età della ragione nelle contraddizioni di un divertito disinganno.
È giocoforza che il dipanarsi degli eventi, conduca Nicolas sulla strada della conciliazione. "Da grande farò ridere la gente, è questo quello che voglio fare", dice il ragazzino dall'irresistibile furbizia. Un piccolo grande adulto, che ha capito il gioco. Che farà implodere l'età matura nella forza liberatoria del riso. La fiaba è giunta a destinazione: il timbro comico suggella il patto salvifico con l'ironia. Ma è impossibile dimenticare in fretta, gli
enfant terribles diretti da Tidard. In loro sobbollono i fermenti anarchici di un'età che semina dietro di sé la rivoluzione. Quei giorni in cui ogni potere è delegato alla fantasia, che come le briciole di Pollicino, riportano ogni adulto che si rispetti al luogo dove tutto è cominciato. Che consentono di raccontarsi la vita, come in un gioioso apologo baciato dalla grazia del ricordo.
05/04/2010