Che il secondo capitolo del dittico su Mesrine di Jean-François Richet fosse di gran lunga più incisivo e palpitante del primo si intuiva piuttosto nettamente dall'ultima parte di "
Nemico pubblico N.1 - L'istinto di morte": lasciandosi alle spalle gli anni Sessanta, il film si sbarazzava progressivamente della pomposità da ricostruzione d'epoca per correre spedito verso i Settanta, decennio di gloria armata per il bandito più celebre dell'Esagono. Ma una sterzata così brusca e spericolata, anche nelle più ottimistiche previsioni, in tutta franchezza non era immaginabile.
La visione di "Nemico pubblico N.1 - L'ora della fuga" fa accantonare ogni riserva: in questo film Richet smette di cincischiare e si sporca davvero le mani, smitizzando il personaggio Mesrine e sputtanando apertamente l'operato della Brigade de Recherche et d'Intervention (BRI) capitanata dal commissario Robert Broussard (interpretato con un'economia espressiva a dir poco fenomenale dal dardenniano Olivier Gourmet). Se "L'istinto di morte" nella sua magniloquenza poteva ricordare la grandeur scenografica dell'ultimo Corneau (tanto da far pensare che Richet avesse riutilizzato il set de "Le deuxième souffle"), "L'ora della fuga" è invece film
richetiano fino all'ultimo fotogramma: tumultuoso, rivoltoso, sfrontatamente terroristico. Richet toglie finalmente il freno a mano e gira con un'irruenza da fare spavento, lanciando inquadrature come granate in faccia allo spettatore, facendo a pezzi sia la figura del bandito carismatico e seducente sia l'immagine democratica e garantista della Francia.
Il Mesrine sagomato da Vincent Cassel (a distanza di sicurezza dagli eccessi opposti del mimetismo necrofilo e dell'istrionismo caricaturale) è un personaggio inconfondibilmente tragico, incalzato da due caratteristiche antitetiche e inconciliabili: da una parte il bisogno di circondarsi di amici per la pelle e compagne di vita, dall'altra una megalomania così spiccata da spaventare e allontanare sistematicamente tutti quelli che lo fiancheggiano. La tragicità è amplificata dal fatto che l'intensità del conflitto rimane invariata al variare delle circostanze: nonostante Mesrine diventi sempre più celebre e temuto, le sue prerogative di compagnone e megalomane si adattano alle nuove situazioni, senza che una prevalga sull'altra e senza che il personaggio viva traumaticamente l'accrescimento della propria immagine pubblica. Chi al contrario non riesce a tenere il passo di tanta protervia sono i suoi soci: coinvolti in imprese sempre più audaci e forsennate, Michel prima (un Samuel Le Bihan di taurina imponenza) e François poi (Mathieu Amalric, il più grande attore francese in attività) non se la sentono di seguire l'escalation criminale di Jacques, abbandonandolo al suo sogno di felicità prossimo alla morte. Persino Sylvia (una Ludivine Sagnier più bollente che mai) è atterrita dalla sua megalomania suicida e arriva a dirglielo apertamente nella sola sequenza in cui esce dal ruolo stereotipato di pupa del gangster. Di fronte agli abbandoni effettivi o paventati Jacques reagisce con disarmante fragilità, mostrando il lato bisognoso del suo carattere e guadagnandosi così la simpatia dello spettatore.
Nei confronti dell'autobiografia "L'istinto di morte" pubblicata nel marzo 1977, il secondo capitolo della saga Mesrine si pone come esplicito superamento sia dal punto di vista quantitativo-cronologico che da quello qualitativo-ideologico. Sforando nel periodo dell'ultima latitanza (posteriore all'evasione dell'8 maggio 1978 dal carcere parigino della Santé), "L'ora della fuga" si costruisce essenzialmente su due fonti: la prima è costituita da "Coupable d'être innocent", il secondo libro di Mesrine pubblicato postumo nel 1979, l'altra è rappresentata da materiali di repertorio (trasmissioni televisive e radiofoniche, carta stampata) che allargano il quadro all'intera società francese nonché agli avvenimenti storici del periodo (il colpo di stato di Pinochet, il rapimento Moro, l'affaire Boulin). È grazie a questo stratagemma narrativo che Richet e Abdel Raouf Dafri (il cosceneggiatore) stabiliscono un dialogo serrato tra storia e Storia, facendo uscire il film dalla sfera della biografia criminale per trasformarlo in vero e proprio affresco sociale (dimensione totalmente assente nel primo capitolo).
Il superamento interessa anche l'aspetto qualitativo: sfrondando le pagine autobiografiche del romanticismo d'accatto di cui sono impregnate e dando voce polemica al personaggio politicizzato di Charlie Bauer (Gérard Lanvin in odor di macchietta), il velleitarismo ideologico di Mesrine risalta in tutta la sua confusione, una confusione rimarcata persino dall'ultranovantenne Henri Lelièvre (Georges Wilson), il miliardario rapito che contratta cinicamente la cifra del suo riscatto, ricordando a Mesrine che non è un rivoluzionario come sostiene di essere, ma un gangster interessato soltanto al denaro. Da queste batoste il personaggio di Mesrine esce pesantemente ridimensionato, perdendo quello status di simbolo rivoluzionario che si è andato creando nel corso degli anni e restando in piedi la sola lotta per la chiusura dei QHS (Quartiers Haute Sécurité: carceri di massima sicurezza), una causa per cui Mesrine si è effettivamente battuto.
Esaltato dallo strepitoso montaggio di Bill Pankow (montatore di Brian De Palma, Abel Ferrara e già alla moviola per Richet in "Assault on Precinct 13"), il ritmo del film non evidenzia pause o battute d'arresto per tutti i suoi 130' (fate attenzione all'incipit a Porte de Clignancourt, tutto giocato sulla frammentazione visiva e sulle brusche scosse sintattiche), raggiungendo il culmine della tensione nella sequenza finale, in cui gli uomini della BRI del commissario Broussard passano dal terrore alla frenesia omicida grazie ad un'orchestrazione dei tempi e dei piani assolutamente stupefacente.
Richet, anche operatore, non si risparmia affatto, scaraventando la cinepresa all'interno degli abitacoli in corsa o in mezzo agli scontri a fuoco, assicurando alle riprese una forza d'urto semplicemente devastante. E concedendosi il lusso di parafrasare nientemeno che Sua Maestà Jean-Pierre Melville: la fuga nella foresta di Jacques e François, il maestoso spiegamento di forze dell'ordine nella campagna e l'attraversamento del corso d'acqua col lancio del sacco omaggiano "I senza nome" (1970) con un tocco d'ironia. Se ne "Le cercle rouge" Vogel (Gian Maria Volonté) gettava i vestiti sull'altra sponda per non bagnarli e far perdere le sue tracce ai cani poliziotto, ne "L'ora della fuga" Cassel azzarda un lancio demenziale che provoca la perdita del bottino del colpo al casinò di Deauville (già sbancato nel lontano 1956 da Bob Montagné). Non fosse per il commento musicale orrendamente tonitruante di Marco Beltrami e Marcus Trumpp, il film di Richet meriterebbe almeno mezzo voto in più, ma anche l'orecchio, come (non) si suol dire, vuole la sua parte. Mesrine gliel'avrebbe data, io pure.
(In collaborazione con
Gli Spietati)
20/04/2009