Artefice dell'insurrezionale "Ma 6-t va crack-er" (1997) e dello scontroso "De l'amour" (2001), Jean-François Richet è un cineasta geneticamente
banlieuesard. Cresciuto a Meaux (comune a una cinquantina di chilometri da Parigi), il quarantatreenne regista francese ha dato visibilità e credibilità cinematografica allo scontento delle
cités facendo piazza pulita delle formulette spettacolari o delle bellurie accattivanti adoperate da Kasso nel fumettone incolore "La Haine" (1995). Anche quando si è cimentato col
remake carpenteriano "Assault on Precinct 13" (2005), Richet ha privilegiato un'ottica periferica, laterale, marginale. Inevitabile quindi l'incontro con le marginal più celebre dell'esagono, quel Jacques Mesrine che da Clichy-La-Garenne (quasi omonima di Clichy-sous-Bois, epicentro delle rivolte del 2005) ha mosso un attacco solitario e istintuale a società e istituzioni di due continenti, imbracciando fucili a pompa e lanciando bombe a mano.
Rivoltosa e provocatoria autobiografia scritta da Mesrine durante la sua ultima detenzione nel carcere parigino della Santé (quello de "Il buco", 1960, di Jacques Becker), "L'istinto di morte" è il fondamentale testo di riferimento per Richet e lo sceneggiatore Abdel Raouf Dafri, che tuttavia intensificano lo sfondo politico della formazione criminale del personaggio, sottoponendo la materia a una calibrata torsione destrorsa ravvisabile nella figura di Guido (Gérard Depardieu),
rital ancora legato alla mala italiana nel libro, membro dell'organizzazione paramilitare OAS (Organisation de l'armée secrète) nella pellicola. Ma, a sottolineare la sostanziale irriducibilità di Mesrine a qualsivoglia orientamento ideologico, fa da contraltare l'amicizia con Jean-Paul, attivista dell'FLQ (Front de libération du Québec), gruppo indipendentista di matrice dichiaratamente marxista.
Non è la prima volta che Mesrine compare sul grande schermo, il cinema francese si è già misurato tre volte col leggendario bandito: la prima nel 1984 col pessimo "Mesrine" di André Genoves, la seconda nello stesso anno con l'avvertitissimo e imprescindibile documentario "Jacques Mesrine: profession ennemi public" di Hervé Palud (con la consulenza del giornalista Gilles Millet) e la terza nel 2006 con l'interessante
Tv movie "La chasse à l'homme: Jacques Mesrine" di Arnaud Sélignac (basato sul libro "La chasse à l'homme. La vérité sur la mort de Mesrine", pubblicato nel 2002 dal commissario Lucien Aimé-Blanc). Ma è certamente la prima volta che intorno alla sua figura si concentra un progetto così imponente: regista di punta, cast stellare e superproduzione (le riprese del dittico sono durate addirittura nove mesi, dal maggio 2007 a gennaio 2008). Risultato: un paio di Premi César in saccoccia (Migliore regista e Miglior Attore Protagonista) e ottima accoglienza di critica e pubblico (oltre due milioni di spettatori).
Tanto entusiasmo è giustificato dal film? Stando alla prima parte del dittico (ma il presentimento che il secondo capitolo sia più incisivo è forte) non del tutto: dopo un esaltante prologo-epilogo in
multi-frame e un poderoso
incipit algerino, "Nemico pubblico N.1 - L'istinto di morte" si sgonfia quasi subito, propinandoci una lunghissima ricostruzione d'epoca dalla messa in scena macchinosa e patinata. Nei panni di Guido, Depardieu gigioneggia di brutto e un impomatato Vincent Cassel stenta a entrare nel personaggio di Jacques. Non aiutano certo le musiche di Marco Beltrami, altisonanti e pervasive, a metabolizzare il polpettone.
Decisamente meglio la seconda parte (dalla fuga in Canada in poi), con la sezione carceraria e la successiva pioggia di piombo a risollevare le sorti di un film che sembrava nascere selvaggio e crescere tronfio. Detto altrimenti, Richet si mostra molto più a suo agio in prossimità degli anni 70 che nei primi 60, mettendo a segno distorti quadri penitenziari (riprese in grandangolo per rappresentare l'alienazione dell'isolamento) e sequenze
action di grande destrezza visiva (l'attacco al carcere insieme a Jean-Paul, il ruvido Roy Dupuis, coniuga mirabilmente fluidità e tumultuosità).
Più il film si avvicina ai 70, più Cassel si trasforma in un Mesrine convincente (senza peraltro scadere nel mimetismo necrofilo), giungendo, nella sequenza che chiude il primo capitolo, a uscire definitivamente dalla caricatura e a conquistare finalmente il personaggio. Più che decorose le prove femminili: se Elena Anaya sbozza una Sofia plausibilmente riottosa, Cécile de France incarna ineccepibilmente una Jeanne Schneider pronta a tutto. Ma è da Ludivine Sagnier nelle vesti di Sylvia e dalla seconda
tranche del dittico che aspettiamo fuoco e fiamme. Altrimenti: colpo in bianco.
(In collaborazione con
Gli Spietati)
16/03/2009