Che si parli di giganti verdi, amori tra rudi bovari, spade dal valore inestimabile o, in questo caso, del concerto più importante e celebrato di tutti i tempi, ogni film di Ang Lee riguarda prese di coscienza, percorsi di formazione e fughe dalle convenzioni sociali. "Taking Woodstock" è paradossalmente un film in cui la musica gioca un ruolo assolutamente accessorio. Di band e musicisti si sente parlare poco, le canzoni dei leggendari personaggi che calcarono il palco in quei tre giorni dell'agosto 1969 si sentono distorte, da lontano, di sfuggita (anzi, la colonna sonora da la maggior parte di spazio a pezzi di band - "Maggie M'Gill" dei
Doors e "The Red Telephone" dei
Love - che a Woodstock nemmeno suonarono). Il palco della mitica tre giorni di pace, amore e musica è inquadrato per una manciata di secondi, in un immenso totale in soggettiva, per di più dal punto di vista allucinato e lisergico del protagonista sotto acido.
No, Ang Lee va in altre direzioni, il suo non ambisce ad essere un nuovo "Quasi famosi", benché la struttura sia quella collaudata della commedia brillante (forse per questo il pubblico statunitense ha snobbato la pellicola in maniera radicale?). Senza risparmiarsi in stoccate satiriche, che prendono di mira la natura puramente commerciale del famoso festival (la facilità con cui viene dispensato denaro agli straniti proprietari terrieri, il cinismo con cui ci si approfitta dell'entusiasmo degli hippy), la pellicola va tuttavia oltre l'affresco sociologico concentrandosi (in particolare nella seconda parte) sulle scelte e le prospettive del giovane Elliot Tiber (il bravissimo Demetri Martin), sognatore, artista, confuso sulla propria identità sessuale (anche se il regista, giustamente, non calca troppo la mano su questo fronte), i cui progetti sono continuamente soppressi dai desideri e dalla caparbietà della madre ebrea (Imelda Staunton) e del sempre più rassegnato padre (Henry Goodman, una rivelazione). Woodstock, con il suo corollario di personaggi folcloristici e vitali (a partire dal travestito Vilma - Liev Schreiber) diventa così il catalizzatore della passione e degli istinti di ribellione del quieto Elliot, nonché una notevole fonte di guadagno per l'avida mamma. Ang Lee e il suo sceneggiatore James Schamus ritrovano con piacere il tono leggero, ma mai superficiale, degli esordi, e sullo sfondo dipingono un'America non troppo lontana da quella di oggi, con le banche che si portano via la casa di chi non paga il mutuo e lo spettro della guerra (Vietnam) a fare da collante.
Qualcosa manca però, forse quella scintilla che avrebbe scaldato davvero i cuori del pubblico. Non tutte le macchiette sono riuscite (soprattutto il reduce di guerra a cui da il volto Emile Hirsch), e Lee, pur abbondando in
split screen (di cui aveva già fatto uso ed abuso nel suo "Hulk") stenta a trovare un ritmo coerente. Insomma, all'interno dell'opera di Ang Lee, "Motel Woodstock" occupa uno spazio volutamente minore, in linea con la prospettiva intimista con cui il regista inquadra il celebrato festival hippy, ma in fondo sa farsi voler bene.