In una notte dell'inverno russo del 1953, dopo aver redatto l'ennesima lista di deportazioni e omicidi di Stato, Josef Stalin cade a terra a causa di un colpo apoplettico. Quando il mattino dopo il suo corpo viene ritrovato riverso sul tappeto, immerso in una pozza di piscio maleodorante, i Ministri del suo Comitato si affannano goffamente per garantirsi la successione allo scranno più prestigioso dell'Unione Sovietica, in una sorta di rincorsa al potere, brutale e maldestra allo stesso tempo.
A tramare al capezzale del dittatore ci sono, tra gli altri, lo spietato Berija, il composto Molotov, l'ingénue Malenkov, il baldo generale Žukov , lo sregolato erede Vasilij, la figlia prediletta Svetlana. Alla fine, come ci ha insegnato la Storia, a spuntarla è il sibillino Chruščëv, burattinaio scaltro dall'apparenza di acqua cheta, capace di ordire una vendetta di machiavellica finezza ai danni dei suoi più temibili Compagni.
Sulla carta, l'adattamento cinematografico del graphic novel francese "La morte di Stalin" di Fabien Nury e Thierry Robin, non avrebbe potuto trovare padrino migliore. A sbrogliare l'intricatissima matassa di patti, alleanze, ripicche e tradimenti, c'è infatti il regista e sceneggiatore Armando Iannucci, uno che ha fatto della satira politica il tratto distintivo di una carriera onorabilissima. L'autore scozzese di origini italiane, infatti, si è imposto agli onori della cronaca più di dieci anni fa con la sferzante serie televisiva "The Thick of It", che grazie al suo humor feroce e allo stile mockumentary metteva alla berlina scandali e ipocrisie del governo britannico. Archiviato lo spin-off cinematografico "In the Loop", Iannucci ha poi bissato il successo in suolo americano con l'omologo "Veep", narrazione seriale diventata particolarmente (e amaramente) rilevante durante l'ultima campagna presidenziale, tra gaffe di dubbio gusto e rivelazioni a dir poco imprevedibili.
Leitmotiv di queste opere, nonché cifra caratteristica del loro autore, è una spiccata propensione per il grottesco e il nonsense, sostenuta da dialoghi serratissimi e scorrettissimi, conditi da una gustosa inclinazione al turpiloquio. Nonostante ricoprano ruoli dirigenziali e siano chiamati a prendere decisioni di primaria importanza, i personaggi di Iannucci sono tutti, indistintamente, dei pusillanimi inadatti a coprire il proprio ruolo, degli opportunisti improvvisati che si barcamenano come possono per rimanere a galla in un mondo pronto a fagocitarli.
Il materiale narrativo messo a punto da Nury e Robin, dunque, cesellato insieme ad altri tre fidati co-sceneggiatori, offriva a Iannucci la possibilità di confermare sul grande schermo il proprio spessore autoriale, rimodellando attraverso il proprio stile peculiare non la fiction né le confessioni estemporanee della dietrologia cronachistica à la "Fire and Fury", bensì la Storia con la S maiuscola. Eppure, nonostante le prove brillanti di cast di ottimo nome, col procedere della narrazione "Morto Stalin, se ne fa un altro" mostra tutti i limiti di un'operazione incerta, irrisolta e (peggio) colpevolmente superficiale.
Da una parte, infatti, lo humor al fulmicotone tipico di Iannucci dimostra di non poter reggere la durata di un lungometraggio: le battute irriverenti e le gag paradossali che si rincorrono in apertura, vanno stancamente smorzandosi nella seconda parte, sebbene non cedano mai il passo a un tono più autenticamente e coraggiosamente grottesco che, forse, avrebbe riscattato e nobilitato l'intera pellicola. Dall'altra parte, e soprattutto, mentre trascorrono i minuti, non può non sorgere nello spettatore un legittimo dubbio - che presto si trasforma in un netto senso di inquietudine - nei confronti della farsesca leggerezza con cui l'autore si prende gioco del clima paranoide di sospetto del regime stalinista, delle persecuzioni politiche, delle fucilazioni sommarie e arbitrarie, delle migliaia di morti nei gulag, degli stupri e delle violenze consumati sistematicamente nelle carceri sovietiche, dei crimini commessi da uno dei più truci e crudeli dittatori del Novecento.
Certo, l'obiettivo di Iannucci è quello di ridicolizzare l'élite bolscevica e di stigmatizzare le dinamiche che ne hanno assicurato la (cruenta) affermazione nell'Unione Sovietica per lunghi decenni - Stalin, del resto, è rappresentato come un bullo bizzoso che ama i cowboy. Ma la riduzione della Storia a opera buffa, la mancanza di approfondimento e di problematizzazione alcuna e, in maniera più vivida, la facilità con cui vengono raccontate o addirittura messe in scena le atrocità perpetrate dalla dittatura, solleva più di un dubbio circa la legittimità del film. Fino a che punto è lecito scomodare le tragedie della Storia per farne un banale divertissement, né provocatoriamente controverso né sagacemente arguto? Su quali morti, noi spettatori occidentali del ventunesimo secolo, siamo pronti a ridere impunemente? E per quali, invece, continuiamo a commuoverci con devozione?
"Tutta l'arte cattiva è il risultato di buone intenzioni", scriveva Oscar Wilde. Parafrasando il poeta, "Morto Stalin, se ne fa un altro" forse non è cattivo, ma di certo il suo autore dev'essere stato mosso dalle migliori intenzioni.
cast:
Steve Buscemi, Jeffrey Tambor, Jason Isaacs, Andrea Riseborough, Rupert Friend, Paddy Considine, Olga Kurylenko, Simon Russell Beale, Michael Palin
regia:
Armando Iannucci
titolo originale:
The Death of Stalin
distribuzione:
I Wonder Pictures
durata:
106'
produzione:
Main Journey, Free Range Films, Quad Productions, Title Media
sceneggiatura:
Armando Iannucci, David, Schneider, Ian Martin, Peter Fellows
fotografia:
Zac Nicholson
montaggio:
Peter Lambert
musiche:
Christopher Willis