La leggenda vuole che Gengis Khan abbia avuto una vita assai avventurosa e che il fine ultimo delle sue traversie fosse quello di unificare le tribù mongole sotto un’unica legge, e cancellare quelle ostili alla sua tribù natale dalla faccia della terra.
La storia ci dice che ci è riuscito, quello che non sappiamo con precisione è come egli abbia fatto, e questo film si propone di colmare la lacuna.
La prospettiva è ovviamente quella filo-mongola, e se in Occidente la visione che abbiamo di questo condottiero non è proprio lusinghiera, dal momento che prevalgono i racconti della sua crudeltà e dei massacri operati ai danni delle tribù ostili alla sua, dal versante asiatico ci giunge una storia epica sul valore del guerriero che è riuscito nell'ardua impresa di creare un impero.
Dall'età di soli nove anni Temujin, il futuro Khan, deve combattere per la sua vita, i nemici di suo padre e quelli che aspirano a prenderne il posto lo tengono in prigionia. Dopo che riesce a scappare e a raggiungere la sposa promessa, questa gli sarà sottratta, e lui stesso sarà ridotto in fin di vita. Ancora dopo aver chiesto l'aiuto del fratello Jamulka, ed essere riuscito a scendere in guerra per salvare la sua sposa, Temujin si trova di nuovo a dover scappare, stavolta dal suo stesso fratello per una faccenda di guerrieri e cavalli sottratti. E via così per tutta la durata della storia, che in maniera assai avvincente ci porta a scoprire le tracce della futura nazione mongola nella volontà di un giovane e forte guerriero.
Con l'intento di raccontare al meglio la storia reale dietro il mito, la sceneggiatura integra le informazioni storiche presenti nel testo "La storia segreta dei Mongoli", poema risalente a pochi anni dopo la morte del sovrano, con quelle tratte dal libro "La leggenda della freccia nera", scritto dallo storico russo Lev Gumilev. In parte grazie a questo presupposto il film risulta molto avvincente, la storia rapisce per intensità e la rappresentazione si divide tra narrazione cruda e poesia. Le distese immense della steppa, ricreate in Cina, Kazakistan e Mongolia, rendono affascinante un racconto che si distingue per i tratti epici che soli evidenziano il forte carattere attribuito al condottiero.
Tutto il racconto viene mostrato con semplicità e la struttura della narrazione è visivamente assai ben congegnata, le scene dei combattimenti hanno un realismo molto crudo che ha una sua ragion d'essere nella realtà dell'epoca storica cui si riferiscono i fatti. Nel XII e nel XIII secolo si combatteva a cavallo con armi da taglio e con archi e frecce, e fortunatamente niente di quello che vediamo ci sembra eccessivo, né diluito a favore di uno stravolgimento del racconto in senso
hollywoodiano. Le scene epiche e il carattere forte del protagonista rendono veloci lo scorrere del tempo che, senza neanche un cedimento, ci accompagna per due ore di sanguinosi combattimenti, tradimenti pagati amaramente e innovativi schieramenti in battaglia.
La figura del protagonista non è mostrata come avventurosa e invincibile nello stile cui siamo abituati dal cinema americano, ma, come da mitologia orientale, è caratterizzata dalla capacità di aspettare e colpire al momento giusto, e dalla celebrazione dell'astuzia come tratto vincente contro la forza bruta tanto cara ai racconti di oltreoceano.
I due protagonisti Honglei Sun e Tadanobu Asano regalano spessore ai contendenti, che spiccano nel clamore delle spade ed emergono come figure epiche, tanto per il contesto che per l'intensità della recitazione.
La regia riproduce in maniera convincente la storia e il mito, fornendo una cornice assai appropriata al racconto misurato di una storia che non conosceremo mai davvero.
03/06/2008