"Mon inséparable" racconta la storia di Mona (Laure Calamy), una mamma della periferia parigina che cresce sola il figlio Joël, neuroatipico (Charles Peccia Galletto) come la stessa Ocèane (Julie Froger), della quale si innamora. Il rapporto madre-figlio si incrina quando Mona scopre che la ragazza è rimasta incinta. Opera prima dell'attrice Anne-Sophie Bailly, la pellicola si rivela una delle più interessanti e raffinate della sezione Orizzonti della 81esima Mostra del Cinema di Venezia. Nonostante le difficoltà dell'esordio e i tanti temi messi sul fuoco, la regista mantiene una prospettiva laica, in grado di affrontare con grande sincerità il mosaico emotivo e sociale che investe una donna quando diventa madre.
"The Bad Mother"
Un noto pediatra degli anni Quaranta, tale D.W. Winnicott, divenne all'epoca famoso perché sostenne che la madre ama e odia il neonato in contemporanea, i due sentimenti cioè coesistono, come aveva scritto anni prima Freud ne "L'introduzione al narcisismo", ossia che le madri danno "amore oggettuale" all'inizio al neonato. Ecco, questa problematizzazione archetipica è riassunta nel prologo di "Mon Inséparable", in cui madre e figlio danzano nell'acqua di una piscina, il liquido amniotico della crescita, nella stessa dimensione ovattata di "Un sapore di ruggine e ossa". Le due figure si incastrano e litigano, amore e odio: è un'introduzione programmatica, la camera è fissa sui primissimi piani, come lo sarà quasi sempre, indugiando sui dettagli del corpo. In questo senso, forse, il tratto più evidente del cinema di Bailly è la costruzione di un'archeologia del corpo della madre. L'obiettivo è di ribaltare il titolo del film, sottolineando la separazione dei due corpi, forse anche la trasformazione che quello di Mona ha subito dopo la gravidanza. Bailly, quindi, combatte, neanche troppo velatamente, quell'idea tutta latina che i figli, soprattutto per le madri, rappresentano dei prolungamenti fisiologici, corporei appunto.
Le scene di sesso tra Mona e l'uomo belga di cui sembra innamorarsi (Geert Van Rampelberg) sprigionano un'intimità purissima. Come detto, i fermi immagine sul corpo di Mona - le anche, il basso ventre, i capezzoli, il collo, i fianchi - formano un collage corporeo quasi ossessivo, che ribadisce la fisicità di Mona, la necessità di essere donna e madre non nello stesso tempo, perché i tempi della donna, della madre e del figlio sono differenti. È cio che scrive il noto psicanalista J. Hillman in "The Bad Mother": "mentre il figlio sfugge al ticchettio delle lancette, diventa eterno, il tempo determina la vita della madre, ne scandisce l'attività, la costringe ad affrettarsi". Così Mona, spesso, sembra senza vergogna alla ricerca di una vita perduta, precedente, che non contiene Joël.
"Il lavoro di una vita"
Al tema della maternità, Bailly sovrappone quello della disabilità e ancora, potremmo dire, uno giuridico: chi ha diritto a cosa? La gravidanza di Ocèane, infatti, è del tutto casuale, inaspettata e, all'inizio, rifiutata dai rispettivi genitori - la preoccupazione è che i due ragazzi non siano in grado di prendersi cura del futuro nascituro.
La pellicola porta sul grande schermo il tema per lo più misconosciuto dei diritti delle persone con disabilità intellettive relativi alla maternità e alla paternità. Parallelamente, quello della maternità si sdoppia, in uno dei passaggi chiave e forse più intensi della storia. Mona e Joël sono partiti per una gita verso il nord della Francia; dopo un litigio a pranzo, però, la madre perde le tracce del figlio durante una festa di un paesino oltre il confine con il Belgio. Joël è investito dalla fiumana di persone che anima la città, la camera lo inquadra dall'alto, poi lo zoom muove all'indietro, l'unica volta in tutto il girato, e fissa il ragazzo nella moltitudine, nella tipicità. Mona, nel frattempo, sporge denuncia e chiama l'uomo belga che aveva incontrato a Parigi. I due si incontrano, fanno l'amore, Mona fa finta di nulla, vive come se Joël non esistesse, come rivela poi all'uomo quando lui scopre la denuncia nella sua borsa e ne chiede conto alla donna.
Da qui in avanti, si ha la netta sensazione che la storia trasporti la regista e la porti dove non si aspettava, come la stessa protagonista esplode in un pianto liberatorio e improvviso confessando "vorrei un figlio normale". Quando si rincontrano, a casa del padre di Joël, che l'ha abbondato proprio per la sua disabilità, il ragazzo sembra raccogliere la richiesta di aiuto della madre, "ci trasciniamo verso il basso a vicenda" dice.
In "Mon inséparable", dunque, la figura materna è posposta a quella della donna, quasi che Bailly voglia intendere la maternità dall'esterno, e restituire alla donna stessa "l'ordine degli anni e dei mondi" di cui scrive Proust ne "La strada di Swann", che è essenziale anche nell'ottica di Bailly per ciò che Rachel Cusk definisce nel suo controverso saggio "Il lavoro di una vita. Sul diventare madri". Allora, Mona e Joël tornano a casa abbracciati, in autobus, dopo aver accettato la libertà altrui, nei colori e nella composizione figurativa de "Il chitarrista" di Picassso (foto sopra).
cast:
Laure Calamy, Charles Peccia Galletto, Julie Froger
regia:
Anne-Sophie Bailly
durata:
95'
produzione:
Les Films Pelléas (David Thion)
sceneggiatura:
Anne-Sophie Bailly
fotografia:
Nader Chalhoub
scenografie:
Clémence Ney
montaggio:
Quentin Sombsthay, François Quiqueré
costumi:
Floriane Gaudin
musiche:
Jean Thévenin