Julian Schnabel prima che regista è stato artista a tutto tondo (pittore, scrittore, musicista), ed è in questi particolari che lo si vede. Il mondo della pittura, che egli già aveva consacrato esordendo con la biografia dedicata a Basquiat (1996) gli resta sempre appiccicato addosso come una seconda pelle. Da qui quindi un gusto spiccato per la fotografia, i colori, i particolari, il piccolo che diventa grande, la camera a mano per rimanere il più vicino possibile ai personaggi, il fuori fuoco per rendere anche visivamente l'idea di un "non-luogo" nel quale si muovono figure perse, sbandate, senza direzione. Delle tre donne che egli racconta, ben prima di arrivare alla protagonista che col suo nome floreale segna anche il film, è più di tutto questo che emerge: la sensazione scomoda e frustrante di sentirsi estranee, fuori contesto, immerse in uno scenario che distrugge ogni certezza, sia quella di una casa che quella di un amore. Solo Hindi, la prima, la più forte di carattere, riesce da questa assurdità a trarne una soluzione concreta e decisiva, portandosi dietro una schiera di bambini, costruendoci sopra una casa d'accoglienza, rifiutando però per salvarli qualsiasi tipo di coinvolgimento ideologico col mondo che li circonda (quello che invece sporcherà, irrimediabilmente o no, le altre).
Lo stesso tipo di rifiuto dello "schieramento" che il regista ha rivendicato all'uscita del film a Venezia, e che cerca in qualche modo di auto-affermarsi anche nella frase finale: peccato però che, a conti fatti, la storia tratta dal libro pseudo/autobiografico della sua compagna giornalista Rula Jebreal (ce la ricordiamo "abbronzata" in qualche penoso salotto televisivo italiano) sia, per forza di cose, tutt'altro che imparziale, ovviamente. E così se gli israeliani ti insultano in autobus, ti frustano in carcere, buttano giù edifici e così via (ma non tutti, anche se l'esempio simbolico dell'amore interrazziale sembra fatto apposta), i palestinesi, persino quelli terroristi, non ce la fanno a far esplodere una bomba in un cinema (dove il corpo sensuale e maltrattato di Cathrine Deneuve simboleggia però una condizione esistenziale femminile tutt'altro che intrattenitiva).
Insomma, la sensazione che deriva dalla visione di questo "Miral" è che il sovrapporsi di due personalità abbastanza forti e cariche di esperienza come Schnabel e la Jebreal non abbia giovato tantissimo alla pellicola, nel senso che ambedue sembrano intenzionati a puntare su due strade di per sè diverse e difficilmente conciliabili: una legata all'esaltazione dell'aspetto estetico/formale (il regista) e l'altra a quello di denuncia sociale (la scrittrice-sceneggiatrice). Ovvio poi che il film in quanto tale non pecchi di eccessive falle (se non su alcune lungaggini patemiche tuttavia di poco conto), solamente viene da pensare, anche solo guardando a due anni fa, a cosa era stato in grado lo stesso Schnabel di fare con un soggetto più "asciutto" a livello di contenuto, ma non per questo meno impattante a livello emozionale: quel "Lo scafandro e la farfalla" che senza tanti orpelli propagandistici si innalzava a vero e proprio elogio della vita, dell'amore, della morte.
Qui funzionano bene il viso delicato e arrabbiato di Freida Pinto, le rughe sagge di Hiam Abbas, le lacrime irrequiete di Yasmine Al Massri. Il resto sembra un po' troppo fatto ad hoc per portare a casa il compitino e fare la coppia figa che se le scrive e se le dirige da sola. Chissà, magari in altre mani la storia avrebbe reso meglio; o forse, come spesso succede in adattamenti di questo tipo, anche peggio.
cast:
Willem Dafoe, Freida Pinto, Alexander Siddig, Hiam Abbass, Omar Metwally, Yasmine Elmasri, Makram Khoury, Shredi Jabarin, Jamil Khoury, Ruba Blal, Doraid Liddawi, Vanessa Redgrave, Stella Schnabel
regia:
Julian Schnabel
titolo originale:
Miral
distribuzione:
Eagle Pictures
durata:
112'
produzione:
Eagle Pictures, Pathé, ER Productions, India Take One Productions
sceneggiatura:
Julian Schnabel, Rula Jebreal
fotografia:
Eric Gautier
scenografie:
Yoel Herzberg
montaggio:
Juliette Welfling
costumi:
Walid Mawed
musiche:
Laurie Anderson