Di che cosa voleva parlarci Spike Lee con il suo ultimo film? Della strage di Sant'Anna di Stezzema, in cui i nazisti massacrarono oltre cinquecento civili innocenti? Dei soldati afroamericani che tentavano di affrontare il razzismo dei loro capi? Dei partigiani? Del popolo italiano incapace di reagire davanti ai soprusi della Germania di Hitler? Forse di tutto questo nello stesso momento, non riuscendo però a focalizzarsi su nessun tema in particolare.
Qui non si mettono in dubbio le buone intenzioni del regista di "Clockers" e "Summer of Sam", ma è quasi inspiegabile come abbia potuto, l'occhio sempre inflessibile e severo di Lee, cedere a logiche così banali e sensazionalistiche. Sarà forse che il regista americano è tanto bravo a raccontare la storia del proprio paese (basti ricordare il pudore con cui tratteggiò la New York post-11 settembre ne "La 25a ora", o lo struggente documentario sugli effetti "collaterali" dell'uragano Katrina, "When The Levees Broke"), quanto inetto nel rapportarsi con quella di realtà a lui estranee (in questo caso quella della seconda guerra mondiale in Italia)?
Eppure è bello, spiazzante, quasi da noir, l'incipit di "Miracolo a Sant'Anna": in un ufficio postale nella New York del 1983, un vecchio impiegato di colore punta la pistola su un cliente e fa fuoco, sino a ucciderlo. Il detective John Turturro (in una breve, ma memorabile, partecipazione) indaga. Perché quell'uomo ha sparato? Che cosa rappresenta la testa di marmo nascosta in fondo al suo armadio? Parte un lungo flashback che ci porta nella Toscana del 1944, nel bel mezzo di un sanguinoso combattimento tra le truppe nere della compagnia Buffalo e i tedeschi, e qui Spike perde subito la strada. La struttura narrativa ad incastri paralleli ricorda da vicino quella del recente "Flags Of Our Fathers", ma Eastwood aveva dimostrato ben altra classe nel padroneggiare il materiale, non risultando mai pedante o didascalico.
Nella pellicola di Spike Lee, scritta dall'autore del romanzo omonimo James McBride, manca invece qualsiasi capacità di sintesi. I personaggi ambirebbero a essere "veritieri", umani nei loro sbagli (il partigiano traditore, il tedesco che aiuta i bambini a fuggire), ma appaiono bidimensionali, delle figurine stantie che rispettano tutti i cliché del genere (la Cervi ragazza coraggio, Antonutti il fascistone dal cuore d'oro). Alla fine il lato più "convincente" è, non a caso, quello con cui il regista ha più familiarità: le discriminazioni razziali a cui erano sottoposti i soldati di colore. Non è abbastanza, però, per risollevare la qualità di una pellicola in cui troppi elementi vengono dati per scontati (com'è possibile che nell'Italia del 1944 tutti riescano a parlare in inglese perfettamente?), e in cui le soluzioni sono sempre troppo banalotte: la leziosità del rapporto tra il piccolo Angelo e il (sic!) "gigante di cioccolato" che se ne affeziona come a un figlio (memore de "La vita è bella"), e soprattutto il finale cartolinesco in riva al mare, involontariamente ridicolo (con i protagonisti completamente vestiti di un "simbolico" bianco).
Nelle oltre due ore e mezza di durata (troppe), le cadute di tono sono tantissime e imperdonabili (vedi il "miracolo" conclusivo) e la confezione pare un po' tirata via, tra musiche onnipresenti e pompose (del solitamente ottimo Terence Blanchard), scenografie povere e una regia, più che classica, televisiva (sarà che co-produce la Rai?).
Lasciamo perdere le solite, sterili, polemiche che accusano il film di "revisionismo", in fondo stiamo sempre parlando di fiction, non di un libro di storia; se "Miracolo a Sant'Anna" non funziona è innanzitutto perché risulta debole da un punto di vista cinematografico, perché manca di grinta e personalità (e proprio per questo, dispiace ammetterlo, è il peggior Spike Lee di sempre). C'è chi ha parlato di sentito omaggio al nostro neorealismo. Mah. Se proprio dobbiamo fare un paragone, vengono in mente, in primo luogo, le fetecchie di Renzo Martinelli.
04/10/2008