È una regia che ricerca continuamente il realismo quella di Christian Carion in quest'ultima sua opera, che dista ben otto anni dalla precedente ("L'affaire Farewell"). Un realismo che ha come suo centro il protagonista: l'attore Guillaume Canet, fulcro della ricerca umana di Carion. Il regista transalpino scava in profondità nell'istinto e nella natura ferina dell'uomo, creando lo scontro, nel suo personaggio, tra una raffinata educazione umanistica e la situazione di minaccia, di pericolo. Scontro che comporta l'emergere della natura animale dell'uomo, l'abbattimento di ogni categoria sociale di convivenza pacifica, il sospetto, l'odio e la violenza.
Così quando Julien, uomo divorziato e distante dalla famiglia, riceve la notizia della scomparsa del figlio Mathys, decide di intraprendere una guerra personale contro i presunti rapitori: una guerra che porterà risentimento, errori e violenze estreme, ma che avrà come fine ultimo la ricerca, da parte di Julien, della propria paternità perduta, di un rapporto con il figlio e con la ex-moglie ormai smarrito e apparentemente irrecuperabile.
La trama può ricordare il "
Taken" con Liam Neeson, prodotto diversissimo per molti versi da questo "Mio figlio", ma che ne condivide la struttura di genere. Carion non cade in uno snobismo tipicamente francese, ma dimostra coraggio nell'abbracciare e nel far proprie alcune strutture tipiche del cinema commerciale "hollywoodiano", il che risulta alla fine una mossa vincente. L'opera è infatti perfettamente calata nella struttura del thriller, ricerca i meccanismi
action e sa ottenere (e mantenere) una tensione costante, che la rende accattivante anche sotto l'aspetto del puro intrattenimento. E tuttavia (e qui sta la differenza ad esempio con il film di Morel o con altri prodotti hollywoodiani) "Mon garçon" non si esaurisce nell'intrattenimento fine a se stesso, ma si cimenta in una ricerca stilistica e in un lavoro di sottrazione che hanno un forte impatto nella resa finale del film.
Come già accennato, Carion concentra il lavoro sul suo protagonista, nel quale fa emergere la naturalezza e il realismo dell'istinto, non soltanto a livello diegetico, ma sullo stesso piano formale: sul set il regista sceglie di fare a meno di una vera e propria sceneggiatura, di girare le scene in ordine cronologico, di evitare trucco e parrucco e, infine, di prender per buono a ogni sequenza il primo ciak, senza ripetizioni: così facendo il protagonista vive sul momento i fatti e le emozioni che lo riguardano, senza conoscere dapprima lo svolgersi delle vicende (se si pensa che Canet non aveva un copione tra le mani e che il tutto è stato girato in sei giorni, la bravura dell'attore acquista un credito ancora maggiore). Qualche dettaglio della storia viene perso, perché ogni errore o dimenticanza non può essere colmato da una nuova ripresa, ma la mdp ci guadagna in realismo, registrando sul volto degli attori un turbamento, una paura e un odio che risultano quanto più possibile spontanei e autentici.
Forse anche per forza di questa ricercata spontaneità, lo spettatore finisce per immedesimarsi in Julien, per diventare egli stesso Julien, per condividerne la spietata vendetta, per fare il tifo per lui nonostante l'immoralità di alcuni suoi gesti: insomma, finisce per riscoprirsi egli stesso pulsionale, istintivo, animale.
Ancora più interessante è il fatto che questa sorta di sincerità recitativa e questa immediatezza stilistica che rende "Mio figlio" un film quasi fulmineo, siano ricercate da un regista, qual è Christian Carion, reduce da due film storici, in costume, e che dunque viene da un cinema di impostazione, che poco ha a che fare col metodo sottrattivo qui all'opera. È proprio questo lavoro di sottrazione, però, applicato a un film di genere, a rendere l'opera decisamente interessante, anche se il plauso finale va senza dubbio alla bravura di Canet, capace di tenere la scena per quasi un'ora e mezza praticamente da solo e messo a nudo di fronte a delle situazioni e a una trama inaspettate, in una prova attoriale non di poco conto.