Ci pareva strano che la 20th Century Fox si lasciasse sfuggire una gallina dalle uova d'oro come la franchise sui mutanti più famosi del pianeta, ovvero gli X-Men. Dopo i primi due episodi diretti da Bryan Singer i giochi parevano essersi conclusi con il terzo capitolo ("Conflitto finale", appunto), firmato da Brett Ratner tre anni or sono. E invece no. Ecco arrivare il primo di una potenzialmente infinita serie (tanti sono i personaggi disponibili) di spin off, concentrata esclusivamente sulla genesi dei personaggi creati da Stan Lee. La scelta del primo personaggio da portare sul grande schermo non poteva che ricadere sull'artigliato e misterioso Wolverine, che nei precedenti film sugli uomini X si interrogava sul suo passato enigmatico e confuso (il prossimo nella lista è il villain "Magneto").
Traendo spunto dalle celeberrime miniserie "Origini" di Paul Jenkins (in cui ci troviamo di fronte ad un Wolverine ancora fanciullo, malaticcio e all'oscuro dei propri poteri, e dove si scopre il probabile legame di sangue che lo lega al violento Victor Creed alias Sabretooth), e soprattutto "Arma X" di Barry Winsdor-Smith (in cui è raccontato come il metallo adamantio venne fuso con lo scheletro di Logan e come il governo trasformò Wolvie in una belva assassina), la sceneggiatura, che pur reca la firma di David Benioff ("La 25a ora"), sembra far di tutto per scontentare i fan della prima ora, stravolgendo personaggi, affastellando situazioni e cambi di location senza logica, ignorando la continuity dei capitoli "diacronicamente" successivi (esempio: nel primo "X-Men" Victor-Sabretooth si batte nuovamente con il fratello Wolverine, ma pare non riconoscerlo o fare cenno alla loro parentela). Ma a mancare è anche qualsiasi tipo di approfondimento psicologico o momento di riflessione, con un protagonista molto banalmente combattuto tra il suo istinto di guerriero e il desiderio di una vita normale. Non c'è mai pathos, non si prova nessun interesse verso ciò che succede sullo schermo, e anche la regia del pluripremiato Gavin Hood (suo il - sopravvalutato - premio Oscar "Il suo nome è Tsotsi") è anonima, priva di mordente, quasi dilettantesca nelle sequenze adrenaliniche (così così l'inseguimento elicottero-motocicletta, davvero pessimo il finale, ostaggio di mediocri effetti digitali). Rispetto ai già non esaltanti episodi di Singer le ambizioni si abbassano: sparisce il discorso sul mutante visto come freak ed emarginato e sulla lotta all'intolleranza (che per Singer si faceva specchio dei campi di concentramento nazisti), resta in compenso qualche pretestuoso aggancio alla politica dell'ex presidente Bush e alla sua strategia "preventiva" (qui il malvagio colonnello Stryker vuole eliminare i mutanti creando una sorta di mostruoso ibrido che ne racchiude tutte le facoltà).
Hugh Jackman, anche produttore, si impegna, ma è troppo pulitino e cotonato rispetto alla rabbiosa controparte cartacea, del resto del cast è meglio non dire nulla (inutile poi l'inserimento parcellizzato di tanti personaggi dell'universo Marvel). Il risultato è assolutamente più bidimensionale di quello delle tavole di Chris Claremont e soci, e tutto si risolve in una noiosa baracconata adatta soprattutto ad un pubblico di teenager (di bocca buona).
30/04/2009