Sviolinata (meritata) per questo film israeliano già vincitore della Camera d'Or a Cannes nel 2007 e uscito lo scorso autunno in Italia grazie alla Sacher di Moretti (altra felice intuizione dopo "La zona"), che sì è guadagnato attenzioni e ottime recensioni più o meno dappertutto. I due registi, Etgar Keret e Shira Geffen (marito e moglie, entrambi scrittori), hanno accettato insieme la sfida di mettersi per la prima volta dietro la macchina da presa e dirigere loro stessi queste tre storie di personaggi femminili alle prese con la realtà israeliana, terra confusa e preda di guerre interne, che proprio per questo rende confuse e incerte, ma soprattutto spaesate, le donne che ci vivono.
Lo spaesamento è quindi qui inteso come condizione esistenziale più che come momento passeggero: si riflette nei visi, nei comportamenti e negli atteggiamenti delle tre belle (e bravissime) protagoniste del film.
Keren è una giovane sposa (paragonabile per sinuosità e "mediterraneità" alla nostra Sophia Loren) costretta a rinunciare al viaggio di nozze per via di una gamba rotta e quindi dirottata in luna di miele in un modestissimo albergo (con tanto di puzza di fogna, condizionatori rumorosi e vista sul mare dalla parte opposta) dove dovrà vedersela con imprevisti assurdi, dubbi coniugali, vicine di stanza misteriose e drammatiche scoperte.
Batya è una giovane cameriera per catering matrimoniali dalla vita senza certezze, piena di perdite (il fidanzato, ma anche l'acqua dal soffitto), senza punti di riferimento (meno che mai i genitori: uno se la fa con una modella bulimica e l'altra fa la carità solo per guadagnare di immagine), e senza amore: il suo unico ricordo diretto è difatti una sorta di "abbandono" virtuale, in spiaggia, all'innocenza infantile (che è in primis il ricordo della regista del film). La silenziosa e misteriosa bambina dai capelli rossi bagnati e ciambella salvagente inseparabile con la quale avrà a che fare (e che la sceneggiatura si rifiuterà di decidere se sia vera o immaginata) le permetterà di affrontare e sopperire a queste mancanze.
Joy è infine una non più giovane colf filippina, immigrata in un paese che a malapena conosce l'inglese (figuriamoci lei), e che a malapena riesce a sopportare chi si sente straniero persino in patria (figuriamoci lei): le sue vicissitudini la faranno naufragare e risalire a galla nelle illusioni e nei miraggi di lavoro ma alla fine, con il suo sguardo di pura pietas sofferente che non avrebbe stonato in un cast di Pasolini, sarà foriera di riconciliazione fra vecchie madri bisbetiche da accudire e figlie adulte e troppo impegnate per potersi ricordare un abbraccio.
Abbiamo a che fare quindi con personaggi soli, donne forse non forti di carattere ma piene di buona volontà, destinate ad essere sballottate dalle onde e ad arenarsi nella sabbia, come meduse, ma sempre pronte a ripartire: senza scoraggiarsi, senza perdersi d'animo, perché la vita non è né comica né tragica, ma ambedue le cose assieme.
Keret e la Geffen traspongono egregiamente dentro queste "storie di (piccola) ordinaria follia" tutte le inquietudini e le incertezze del presente, specialmente se riferite ad una terra ancora vittima del proprio caos socio/culturale come Israele. Una fotografia e una colonna sonora incantevoli (tra cui spicca la versione autoctona de "La vie en rose") danno loro una grossa mano.
L'unico appunto fattibile è la forse troppo ostentata ricerca di momenti da "film d'autore", come se la trattazione già di per sé minimalista e poetica delle storie non bastasse a giustificare questo status. Per questo quindi il film risente a tratti di sequenze talvolta troppo cariche (di elementi formali, surreali, simbolici, come la figura della bambina o quella del gelataio), troppo enfatiche, troppo "costruite" (per la semplicità e la scorrevolezza narrativa presenti) da sembrare quasi clichè.
Per il resto ci si lascia volentieri cullare nella visione, ridendo, ammalinconendoci, commuovendoci, come in mezzo al tranquillo mare blu di Palestina.
23/06/2008