"E ora l'altra vita. Quella senza sbagli." Lou Lipsitz
Il volto sfocato di Clara (Andrea Osvart), attraverso il finestrino un paesaggio indistinto scorre veloce e si mescola alle immagini dei due figli, di quel giorno al lago, al ricordo ancora nitido, reale, eppure appartenente ormai a un'altra vita.
"Io vorrei solo morire" sono le prime parole che pronuncia dentro la sua nuova casa. Clara è l'ultima arrivata nella clinica (l'ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere) e ad attenderla ci sono altre donne che come lei hanno compiuto il più atroce dei delitti.
Presentato nella sezione "Controcampo italiano" all'ultimo festival di Venezia, "Maternity Blues" è il terzo lungometraggio del regista carrarese Fabrizio Cattani, un film
low budget (meno di mezzo milione di euro) in gran parte prodotto dagli stessi addetti ai lavori ("The Coproducers") che in cambio del proprio contributo tecnico, artistico o finanziario, ricevono una quota sui diritti. Tratto dall'opera teatrale "From Medea" di Grazia Veranasi, a sua volta ispirata a fatti realmente accaduti, il film di Cattani riprende un tema sul quale la televisione italiana - dal delitto di Cogne in poi - ha imbastito talk show di ogni sorta, ad ogni ora del giorno e della notte.
Il punto di vista di Cattani è però insolito e coraggioso. La depressione post-partum (detta anche "maternity blues") è affrontata nelle sue devastanti conseguenze sulla persona, sulla donna che ne è stata afflitta. Non si pone l'accento sui dettagli macabri del gesto, ma vengono piuttosto indagate le reazioni delle donne, il tentativo di riappropriarsi di se stesse, di convertire il senso di colpa in nuova energia vitale.
Le quattro protagoniste rappresentano altrettante parti che compongono l'essere femminile. Vincenza (Marina Pennafina) è la madre, la più ragionevole e pia, Eloisa (Monica Birladeanu) l'amante ribelle e anticonformista, Caterina (Chiara Martegiani) è la bambina che ancora sogna l'amore, una vita normale e infine Clara, la moglie apparentemente perfetta, devota al marito e alla famiglia.
Il film si oppone dunque all'attuale (dis)educazione mediatica che istiga alla condanna e a giudicare facilmente queste donne "assassine", mostrando invece come loro stesse siano state vittime della malattia, molto spesso trascurate o abbandonate e incapaci da sole di trovare la forza per fermarsi.
Il gesto che esse hanno compiuto è atroce ma non incomprensibile. E' questo il duro passo che il regista chiede di compiere. Il cosiddetto "istinto materno", che secondo l'opinione comune è impensabile possa vacillare, tanto meno cedere a un simile abominio, è in un certo senso demistificato e considerato, come altri istinti umani, ugualmente vulnerabile.
Sorprende invece come queste donne scelgano di vivere, giorno dopo giorno, abituandosi a una dannazione, da cui non potranno mai liberarsi del tutto. E' sorprendente, come recitano le ultime parole di Clara, "quanto può essere ostinato e resistente il cuore di una donna."
Se i propositi del film sono coraggiosi e originali, altrettanto non si può dire della sua realizzazione. La forte connotazione teatrale della sceneggiatura (scritta dallo stesso regista insieme a Grazia Verasani) con frequenti monologhi ripresi in primissimo piano, rallenta inesorabilmente il ritmo della narrazione.
Alcune scene sembrano caricarsi di significati che poi invece si perdono per strada (la metafora di Charlie Brown). Altre non si distinguono dalla fiction all'italiana e risultano davvero poco credibili (la canzone che Eloisa dedica alla figlia, certi dialoghi medico paziente o discussioni fra compagne di stanza) e soprattutto non aggiungono niente alla storia.
Ben descritta invece, nelle sole scene girate fuori dall'ospedale, la figura di Luigi, marito di Clara (Daniele Pecci), che malgrado il dolore per la perdita dei figli, continua ad amare sua moglie.
Il distacco emotivo creatosi tra film e pubblico non riesce però a colmarsi, né coi sussulti provocati dalle scene più violente, né grazie alle prove degli interpreti, piuttosto deludenti.
Da questa considerazione è fatta salva Andrea Osvart (a cui Cattani aveva già affidato il ruolo di protagonista ne "Il rabdomante" del 2006) che mantiene un'intensità e una coerenza apprezzabili, spesso senza bisogno delle parole.
E' un film che nel complesso si lascia guardare piuttosto che avvincere, o convincere.
01/05/2012