Per una curiosa coincidenza anche quest’anno come nel precedente la presenza italiana nel concorso internazionale, quello dal quale uscirà il vincitore della 72 esima edizione del Film Festival di Locarno, sceglie di parlare del sacro e delle sue contraddizioni, con una vicenda che, a differenza di quella di “Menocchio”, collocata nel passato remoto della nostra Storia, è ambienta nell’Argentina del nostro tempo. A fare da protagonista sono tre donne che, con diversi ruoli e per diversi motivi si ritrovano a Buenos Aires, nell’istituto religioso incaricato di occuparsi di ragazze madri e dei loro bambini. Suor Paola è una novizia trasferitasi in loco per completare il percorso necessario a prendere i voti mentre Lu e Fati, amiche di lungo corso nonostante le divergenze caratteriali, sono le due ospiti che la religiosa aiuta a prendersi cura dei rispettivi figli. Nel raccontare il percorso esistenziale che per un momento porterà le donne a condividere il medesimo destino, Maura Delpero adotta una struttura narrativa archetipica che riguarda tanto i personaggi quanto gli avvenimenti. Se infatti suor Paola è la “straniera” destinata a minare gli equilibri della comunità, Li e Fati sono - in maniera inconsapevole - la sua nemesi, antipodi morali (si potrebbe parlare di bene e male se nella fattispecie i concetti in questione non fossero la manifestazione di un’innocenza primigenia e dunque priva di peccato) e comportamentali destinati a destabilizzarne le certezze. Con la sovrastruttura ecclesiastica rappresentata dalla gerarchia che governa il “regno” (la madre priora e le altre consorelle) a presiedere la conservazione dello status quo e, dunque, a soffocare qualsiasi tentativo di deviazione dalla consolidata ortodossia.
Una rappresentazione, questa, che dal testo narrativo tracima con progressione nelle immagini la cui capacità di trasfigurare il reale è pari all’efficacia con cui esse riescono a far emergere la profonda e partecipata complessità del sottotesto, a partire dal confronto tra sacro (Suor Paola) e profano (Lu e Fati), dapprima opposti e distanti, infine mescolati e confusi: si pensi, nel primo dei due casi, al montaggio parallelo (di Ilaria Fraioli e Luca Mattei) delle sequenze iniziali, in cui in cui a contrapporsi è il paragone tra l’estasi spirituale della suora che si rivolge gli occhi alla statuetta del Cristo e la passione mondana di Lu intenta a baciare la foto del ragazzo di cui si è appena innamorata. E, al contrario, per gli effetti prodotti, a una delle scene fondamentali del film, quella destinata a creare lo scarto tra il prima e il dopo, in cui il sentimento di maternità della suora, stimolato dalla contiguità con i bambini dell’istituto e, in particolare, dalla figlioletta di Lu (di cui Suor Paola si prende cura in assenza della madre), diventa pulsione irrefrenabile della biologia femminile, allorquando, togliendole il velo che ne incornicia il volto la bambina consegna alla mdp il primo piano di una donna nuova e diversa, non più neutralizzata dal rigore delle vestigia religiose ma completamente definita nelle sue prerogative di donna e di madre. In questo senso “Maternal” è davvero e senza “falsi” riferimenti un film originalmente pasoliniano: a differenza di altri che lo sono solo in superficie quello della Delpero non si limita a riprenderne la lezione nella peculiarità della fenomenologia socio ambientale come pure nella predilezione per l’istintualità senza mediazioni del contesto umano. A surrogare il modello in questione ci pensa un convergenza tra alto e basso in cui la laicità del soggetto è resa sacrale dalla vertigine dei riferimenti pittorici (ci verrebbe da dire Mantegna e la pittura del suo tempo, ma poco importa perché qui si vuole fornire solo una suggestione visiva) e dalla plasticità delle figure che li compongono.
Alla mancanza di Dio (un antitesi rispetto al quadro della vergine che Suor Paola (un'ottima Lidiya Liberman) affigge al muro e nel quale campeggia la scritta che più o meno dice: “A chi ha Dio non manca nulla”) e a quella derivata dal mancato frutto del suo amore (appunto il miracolo della maternità di cui Suor Paola a un certo punto sente il desiderio) “Maternal” riesce ad allargare il proprio discorso, comprendendo al suo interno un tema dibattuto come quella relativo alla riforma della Chiesa, di norma discusso soprattutto per quanto riguarda la castità maschile e l’allargamento del sacerdozio alle donne. Mai come in questo caso la diversità dello sguardo sullo problema agisce da grimaldello del luogo comune elevando a ugual tenzone il dimenticato contraltare femminile, di solito preso in causa solo come riflesso e conseguenza del problema e qui assurto a pari dignità e autonomia dalla scelta della regista di metterlo a “nudo” nella riflessione generata dal sacrificio della mancata maternità di cui il personaggio di Suor Paola si fa suo malgrado emblema. E’ in parte per questo e per il resto di cui abbiamo parlato a eleggere “Maternal” tra i candidati per la vittoria finale, legittimando di fatto la nascita di una nuova autrice. Complimenti anche alla Vivo film di Marta Donzelli e Gregorio Paonessa, scopritori di talenti (non ultimo quello di Daniela Occhipinti, autrice del bellissimo “Il corpo della sposa - Flash Out”) e produttori di punti di vista inediti sulla contemporaneità; non solo italiana.
cast:
Lidiya Liberman, Agustina Malale, Denise Carrizo
regia:
Maura Delpero
distribuzione:
Vivo Film
durata:
91'
produzione:
Vivo film, Rai Cinema
sceneggiatura:
Maura Delpero
fotografia:
Soledad Rodriguez
scenografie:
Yamila Fontan
montaggio:
Ilaria Fraioli, Luca Mattei
costumi:
Jam Monti