"Mary and Max", primo brillante lungometraggio per l'australiano Adam Elliot (già Oscar nel 2004 come miglior corto di animazione per "Harvie Krumpet"), è un film sulla solitudine. In particolare su due solitudini apparentemente diverse, distanti nello spazio e nel tempo (anagrafico), ma in qualche modo esattamente uguali e speculari. Mary è una bambina di otto anni che vive in un sobborgo di Melbourne (Australia), con due genitori completamente assenti: il padre infelice, un lavoro in fabbrica ad attaccare le cordicelle alle bustine di the, e la madre cleptomane, dedita all'alcool e al cricket, che racconta alla figlia che i bambini nascono nei boccali di birra. Tutto quello che vorrebbe Mary è un vero amico, oltre al solo che ha, un pollo. Così un giorno strappa una pagina da un elenco telefonico newyorkese trovato all'ufficio postale, e scrive una lettera al primo indirizzo che le capita per chiedere se anche negli Stati Uniti i bambini nascano nei boccali di birra. Il destino - ovvio - ci si mette di mezzo. La lettera giunge a Max, quarantenne ebreo, obeso, comunista, solo, in analisi, una vita di lavori saltuari, un guardaroba fatto di tute da ginnastica, incapace di comprendere la gente, perenne perdente alla lotteria, e malato di una particolare forma di depressione, ma con lo stesso problema di Mary: avere un amico vero, che non sia un uomo invisibile seduto su uno sgabello a leggere classici, o un pesce rosso. Così, inizialmente scosso dall'evento inatteso di ricevere una lettera simile, com'è scosso da qualunque cosa nuova e inconsueta, Max - la voce originale è quella del sempre perfetto Philip Seymour Hoffman - risponde a Mary - Toni Collette nella Mary adulta - e i due diventano una coppia (solo all'apparenza male assortita) di amici di penna.
Ovviamente nella storia, che si sviluppa nell'arco di vent'anni, non mancano le incomprensioni, i "rumori" della comunicazione epistolare, i fraintendimenti e i ritardi, le crisi, che per Max nascono nel momento in cui Mary fa domande al di fuori della sua portata (l'amore, soprattutto). Con uno stile di animazione che può ricordare "Wallace e Gromit" e la serie tv "Creature Comforts" - attenzione, solo nelle forma esteriore -, e il Tim Burton di "Nightmare Before Christmas" e "La sposa cadavere" - in alcuni episodi dark - , Elliot coinvolge lo spettatore con un umorismo sottile, inatteso, a volte tagliente, amaro, leggermente caustico, ma intriso di un'atmosfera sempre candida e innocente, perché con candore e innocenza i due protagonisti osservano e cercano (inutilmente) di capire i loro rispettivi mondi: Mary, in quanto bambina di otto anni, con le sue domande ingenue sui problemi di essere presi in giro a scuola o sull'esprimere l'amore, e Max, in quanto incapace di comunicare con chiunque, che usa un tono decisamente fuori dalla portata di una bambina, parlandole di filosofia, preservativi, psicanalisi, ateismo - ma i due si comprendono lo stesso. Un'ironia, quindi, che strizza l'occhio alla tradizione
yiddish - inevitabilmente a Woody Allen e in alcuni momenti a Groucho Marx -, con riferimenti alla comicità classica (la gag-citazione di Jerry Lewis della macchina da scrivere), alla parodia del carteggio, che smonta stereotipi, e alterna momenti decisamente comici a toccanti situazioni poetiche, fino a veri e propri drammi (morti, crisi depressive, ecc.), con un attento controllo della drammaturgia, una struttura "epistolare", e l'azzardo di due protagonisti - verosimili e costruiti a trecentosessanta gradi, vivi oltre la plastilina nella loro quotidianità fatta di piccole cose - che non si vedono e non interagiscono mai in modo diretto.
I colori sono l'ocra, giallo e arancione dell'estate australiana, contrapposti al grigio e al nero dell'inverno newyorkese, il silenzio e l'assenza di persone della periferia australiana diventano paradossalmente simili al rumore e al traffico della grande città. Ci si consola con la televisione; si collezionano i pupazzetti dei cartoni animati e, se non si hanno soldi per acquistarli, si costruiscono con carta e nastro adesivo; ci si inventa qualcosa, qualunque cosa, per farsi compagnia; si usano dei piccoli libri per comprendere le espressioni dei volti delle persone (sorriso uguale felicità, ad esempio); ci si chiede come fare a comunicare un sentimento, e quale grande responsabilità sia dare una risposta su un tema come l'amore quando l'amore non lo si conosce affatto; ci si scambiano lettere, dolci e ricette (l'hot dog di cioccolato inventato da Max); ci si chiede come trovare un amico vero; si ammette di non avere mai pianto e allora si ricevono delle vere e proprie lacrime in una bottiglietta che arriva dall'altra parte del mondo.
Una delle migliori produzioni australiane degli ultimi anni, film d'apertura al Sundance festival di quest'anno, e una delle opere d'animazione più interessanti e coraggiose nel parlare con intelligenza di (mancanza di) amicizia e amore, e anche di morte, nevrosi, fobie, differenze sessuali e religiose, incomprensioni, ma soprattutto solitudine, senza ammiccamenti, senza ruffianerie o luoghi comuni. Tutto questo in un cartone animato? Tutto questo in un cartone animato. La solitudine, quindi, come l'amicizia, come l'amore, è un "sentimento" universale, che non conosce spazio, che non fa differenze di sesso, che non considera l'età; si è tanto soli a New York come uomini di quarant'anni senza futuro, come lo si è nella periferia di Melbourne, come bambine di otto anni con una vita ancora da vivere. Si hanno le stesse domande, gli stessi problemi da risolvere, e a volte una piccola cosa la lettera di un perfetto sconosciuto può cambiarti la vita, e puoi trovare quello che hai sempre cercato.
10/05/2009