Le miniere del Belgio hanno attratto, dagli anni 40 del '900 in poi, circa trecentomila lavoratori italiani. Si è trattato di un fenomeno di notevole rilevanza - conseguenza dell'accordo bilaterale di scambio manodopera-carbone stipulato dai due paesi -, che ha segnato la vita di due generazioni di migranti, i quali trovavano alloggio in stamberghe sovraffollate e lavoravano in condizioni abominevoli. Talvolta incontravano la morte, come nel tristemente celebre caso di Marcinelle.
Il cinema non è stato molto prodigo nel raccontare questa grande esperienza collettiva, specie in raffronto ad altre drammatiche epopee del secolo scorso. Ci sono tuttavia alcune rimarchevoli eccezioni, come l'introvabile "Già vola il fiore magro" di Paul Meyer o l'invisibile, più recente "Mineurs" di Fulvio Wetzl.
"Marina" del belga Stijn Coninx si inserisce benissimo in questo mini-filone - e rimanda a tanti momenti del delizioso film di Weltz nella prima parte - affiancando però alla vicenda di emigrazione e lavoro la storia vera del cantautore calabrese Rocco Granata, autore della celeberrima
hit che dà il titolo alla pellicola.
Partito da bambino con tutta la famiglia (la madre è interpretata da Donatella Finocchiaro), Rocco insegue per tanti anni la carriera di musicista, ostacolato dal dilagante razzismo verso gli italiani (sarà impossibile ottenere per vie legali una licenza per suonare in pubblico, nonché coronare il sogno d'amore, corrisposto, con la bionda Helena), da discografici poco lungimiranti (che puntano su "Manuela", brano più raffinato ma molto meno orecchiabile), soprattutto dall'ostracismo oltranzista di un padre autoritario (un magistrale Luigi Lo Cascio).
Dell'opera di Coninx, regista candidato agli Oscar nel lontano 1993 per "Padre Daens", è facile riscontrare i limiti. Il taglio delle riprese non è, come si suol dire, molto cinematografico. Basti vedere le sequenze in miniera: troppo illuminate per risultare autentiche, si adattano allo sguardo pigro dello spettatore medio. Lo sviluppo della sceneggiatura è alquanto convenzionale, e le ripetute scenate in famiglia alla lunga drammatizzano più del dovuto le relazioni tra i personaggi. Il protagonista, infine, ha generalità italiane (Matteo Simoni), ma per pronunciare la nostra lingua e il dialetto si arrangia come può. Non certo in maniera impeccabile.
Tuttavia, se da un lato si vorrebbe vedere il tocco autoriale di un Gianni Amelio trasformare un soggetto che gli sarebbe congeniale in un narrato più sottile, dall'altro ci si lascia trasportare da questa efficace storia semplice che trasuda sincerità e calore, emozionando fino alle lacrime, regalando anche attimi di poesia, come nelle rare scene in presenza di uno splendido personaggio: il timoroso Jacky. Vittima di bullismo alla presenza di Rocco bambino, diventerà suo caro amico e suo primo fan, e lo scagionerà da un'accusa infamante. Rimarrà, insomma, nei nostri cuori.
In un moto di razzismo al contrario, ci si chiede come possa una tale, disarmante sensibilità albergare nell'animo di un cineasta fiammingo anziché di un italiano meridionale.
Coproduzione italo-belga resa possibile da finanziamenti pubblici - anche in forma di sgravi fiscali - di entrambi i paesi, e dal prezioso contributo di Cristiano Bortone e lor maestà i fratelli Dardenne; distribuita - per modo di dire - in Italia dal 18 maggio, dopo un grande e meritato successo in Belgio. Onore alla Movimento Film che ci ha creduto, ma trovare una sala che la proietti è davvero un'impresa.
17/05/2014