Ondacinema

recensione di Alessio Cossu
7.0/10

In Occidente, quando si usa il termine Cina, lo si fa talvolta immaginando una nazione unita sotto il vincolo della continuità fisica, sociale e culturale. Il paese dell’Estremo Oriente, invece, pur nella sua unità è assai simile a un prisma, le cui facce riflettono realtà piuttosto variegate, che possono per giunta cambiare a seconda del punto di vista di chi le considera. La Cina delle aree metropolitane ha ben poco di quelle rurali, così come il Tibet non ha molto a che spartire con le zone portuali alle foci dei grandi fiumi. Una Cina, tante Cine. Tra le tante vi è quella del Nordest, detta Heilongjang, di cui è originario Geng Jun, regista nato nel 1976 e che ha esordito nel 2002 con "Harthorn". Si tratta di un’area caratterizzata da lande di un territorio sottoposto all’estrazione di ferro, petrolio e carbone. Il clima freddo e i lunghi inverni hanno da sempre impedito che si consolidassero quelle comunità contadine che hanno fatto le fortune dell’agricoltura delle grandi pianure.

È in questa regione, nella quale il regista ritorna sovente, che si colloca il set naturale di "Manchurian Tiger". I personaggi dei film di Geng Jun sono talvolta bizzarri e sembrano pagare lo scotto imposto dall’isolamento, dalla diffidenza, dal clima inospitale che rende freddi anche gli animi, oltre che i corpi. Il danaro, il benessere economico, quello raggiunto rapidamente per bypassare l’ingrata fatica del lavoro nelle miniere sembrano il pensiero fisso anche in questo film. L’originalità delle opere di Geng Jun consiste però non tanto nel parlarci del lato oscuro della Cina, quanto della tecnica impiegata nel suo testo filmico.

Xu Dong, il protagonista, sposato, senza figli e con un cane fedele, conduce una vita stantia e priva di sussulti, se non fosse per le amanti di cui si circonda. La moglie, in procinto di partorire, vuole liberarsi del cane, che Xu affida dunque, temporaneamente, a un vicino, Ma Qianli. Costui però, essendo colmo di debiti, nel maldestro tentativo di compiacere un creditore che lo perseguita, gli imbandisce le carni del cane. Xu, saputo del fatto, inizia una lunga caccia a Ma. Tuttavia, quello che dovrebbe essere un inseguimento e culminare con una resa dei conti finale diventa un avvicinamento tra i due, favorito da figure altrettanto singolari: un poeta e un insegnante di scuola media. È evidente che enfatizzando l’eccentricità dei personaggi Geng Jun mira a sfuggire alla censura. La triste teoria delle vite dei personaggi sui cui volti non compare mai l’ombra di un sorriso e che costituiscono di fatto il risvolto meno presentabile della grandeur economica e politica del gigante asiatico, sarebbe potuta suonare decisamente contestataria se il regista non le avesse dato una veste semiseria, comica, e a tratti perfino ammantata di filosofica resilienza. La trama viene facilmente movimentata per il fatto che a causa dei suoi tradimenti, anche Xu si trova a dover in un certo senso sfuggire alle ire di qualcuno: quelle della moglie. E così la contaminazione con il road movie, cui facilmente l’ampiezza degli spazi avrebbe dato grande respiro, cede il passo alla black comedy, e la tragedia si muta in beffa.

Dicevasi della tecnica narrativa di Geng Jun. La prima considerazione riguarda i tempi di realizzazione del film: sei anni. I suoi personaggi non parlano molto, anzi a tratti si ha l’impressione che il loro carattere sia definibile più per ciò che non esprimono, che non esplicitano (almeno a parole). In alcune sequenze, viceversa, essi condensano in una o due frasi stringate ma concettose quello che sarebbe il frutto di un lungo dialogo (che viene perciò risparmiato allo spettatore) e soprattutto l’esito di una meditazione che investe l’intero film. Ad esempio, quando Ma propone a Xu di dargli l’anello a titolo risarcitorio per compensarlo della fine del cane, quest’ultimo dice: "Sembra uno scambio equo: i tuoi ricordi per i miei ricordi". Quando Ma parla delle spericolate speculazioni finanziarie che hanno prima allettato e poi gettato sul lastrico i parenti, Xu chiede: "Sei riuscito a fregare un filosofo?", e Ma esclama: "È l’illusione che l’ha fregato; ha ingannato anche me!". Tuttavia, l’incisività dei dialoghi sarebbe poca cosa se disgiunta dalla tecnica di ripresa e montaggio del tutto sui generis. Lo stile di regia di Geng Jun è decisamente personale. Il cineasta padroneggia così bene la cinepresa che a tratti sembra letteralmente prendersi gioco dello spettatore. Qualche esempio. In una sequenza in cui Xu, che è ancora sulle tracce di Ma, è in posizione frontale rivolto fuori campo, sta parlando con quest’ultimo al cellulare. Scopriamo però che Ma non si trova chissà dove, bensì esattamente davanti a lui. Il punto è che lo vediamo nell’inquadratura successiva. Il regista non sembra affatto sentire la necessità di dire tutto e subito. In un’altra sequenza Mei Ling, al telefono, si sta lamentando con un’amica dell’infedeltà del marito. Nello stacco successivo l’amica viene inquadrata in campo medio mentre le risponde. A quel punto, nella stessa inquadratura compare in primo piano il marito che trascinando una flebo dice: "Se devi dire qualcosa, dillo e basta, non borbottare. Non sono ancora morto". È una frase e un’inquadratura che ricostruisce tutto un menage familiare.  In un’altra inquadratura ancora, dopo che si è opportunamente stabilito un legame empatico tra il debitore Ma e il pubblico, questi, guardando in macchina sembra rivolgersi frontalmente proprio agli spettatori: "Dopo aver sentito questo, vi sentite meglio? Ve ne starete qui ad ascoltare tutto il giorno?". Il debitore è invece rivolto ai familiari, suoi creditori, che sono fuori campo. Anche qui la scoperta avviene solo nell’inquadratura successiva. Un’ultima notazione per quanto riguarda il trattamento degli esterni: quella vocazione mineraria, industriale dell’ambiente è più volte sottolineata facendo comparire sullo sfondo (anche nelle inquadrature dall’interno delle abitazioni) le ciminiere fumanti.

Manchurian Tiger è perciò un’opera che merita i palcoscenici non solo cinesi. Se lo si dovesse accostare ad altre pellicole, è inevitabile che la scelta cada su "An Elephant Sitting Still" (2018) del compianto Hu Bo. Di questi, Geng Jun sembra aver ereditato un uso non convenzionale della macchina da presa, oltre che il ricorso ai piani sequenza e a un regime narrativo debole. Tra i due film vi sono inoltre coincidenze nel cast.


30/04/2022

Cast e credits

cast:
Zhang Xun, Guo Yue, Xu Gang, Zhang Zhiyong, Ma Li, Zhang Yu


regia:
Geng Jun


titolo originale:
Dong Bei Hu


durata:
118'


produzione:
Blackfin Production, Rediance, Hehe Production


sceneggiatura:
Geng Jun, Liu Bing


fotografia:
Wang Weihua


montaggio:
Chen Heping


musiche:
Cheng Xiaoshu


Trama
Heilongjiang, Cina nordorientale. Mei Ling chiede al marito Xu Dong di liberarsi del cane, invece lui lo affida a Ma Qinli, uno speculatore gravato dai debiti. Quando questi serve in pasto l'animale a un creditore, Xu Deng medita vendetta. I piani di Xu, tuttavia, non si concretizzano, tanto che tra i due nasce l'amicizia. Intanto Mei Ling ha scoperto che il marito la tradisce e vorrebbe scoprire l'identità dell'amante...