Vi ricordate "Auguri professore"? La commedia drammatica sull'insegnante che andava in crisi d'identità e che ritrovava la voglia di fare il suo bellissimo lavoro riannodando i fili del passato? La pellicola interpretata da Silvio Orlando e Claudia Pandolfi che, rifacendosi al successo de "La scuola" di Daniele Luchetti, tornava a rinverdire i fasti del filone scolastico della nostra commedia? Sono passati ormai vent'anni esatti e quello era l'esordio dietro la macchina da presa di Riccardo Milani. A guardare bene questo "Mamma o papà?", settimo lugometraggio del regista romano, di quella verve, di quell'amore per l'arte della narrazione cinematografica, quel gusto malinconico nel fondere registro brillante e dramma, non è rimasto praticamente nulla. Milani ha poi preso una strada più facile rispetto a quanto facesse legittimamente sperare il suo primo film e, più in particolare negli ultimi anni, il suo orientamento, più che guardare alla gloriosa tradizione della commedia all'italiana, ha preso a strizzare l'occhio all'estetica delle fiction televisive e alla scrittura cabarettistica che, in molti show del piccolo schermo, ha provocato una pericolosa confusione fra vera comicità e pigrizia intellettuale.
Il soggetto è presto detto: coppia non più innamorata decide di separarsi, ma le ambizioni professionali di entrambi, unite al risentimento di lei per una tresca di lui scoperta, porteranno a una strana "Guerra dei Roses", in cui gli ormai ex coniugi faranno di tutto per perdere l'affidamento dei figli e in questo modo potersi tornare a concentrare su se stessi. Un trucco di sceneggiatura che, invece che elevare il film a opera dissacratoria dell'istituzione-famiglia, lo affossa senza pietà. Infatti, Milani, aiutato in fase di scrittura da Giulia Calenda e dalla stessa Paola Cortellesi, banalizza la trovata iniziale. Nei tentativi goffi e alla lunga noiosi dei due genitori di farsi odiare in modi ridicoli dai figli, proprio per spingerli a dire al giudice di non voler andare a vivere con loro, si nasconde una povertà di spunti creativi.
Dell'abilità dei grandi autori della nostra tradizione di usare la commedia come espediente per mettere alla berlina vizi e debolezze di noi italiani, nel film di Milani non c'è quasi nulla. Inseguendo un intento di fare della satira su una certa ipocrisia che copre l'essenza stessa della famiglia, il regista romano si accontenta di volare più basso: la ripetizione delle gag, fra l'altro ben poco divertenti e coinvolgenti, restituisce in realtà uno spiazzante sentimento di tristezza. È la tristezza di chi deve constatare come rifarsi al concetto "alto" di commedia sia nella nostra contemporaneità, spesso, sintomo di presunzione. Attenzione ai dialoghi: noterete che la stessa scrittura dell'opera si incarta nel corso dei minuti. Si parte con espresse e dichiarate intenzioni di mettere in scena una famiglia imperfetta ed emblematica: un manifesto delle volontà, insomma, per farci sorridere mentre ci viene mostrata una delle istituzioni fondanti della nostra società come sarebbe nella sua più profonda realtà, ovvero un coacervo di contraddizioni e bugie.
Dopo poco, però, il film si riduce a uno stanco susseguirsi di episodi demenziali, per di più interpretati da una coppia invero poco assortita come quella composta da Antonio Albanese (dimesso e fuori parte) e la stessa Cortellesi (esagitata e davvero poco portata ad essere protagonista di impegnative scorribande cinematografiche). Eppure, nel primo piano di quell'urlo liberatorio che il professore di Orlando lanciava dall'abitacolo della sua macchina nel film del 1997 che abbiamo citato in apertura, c'era la forza di un giovane cineasta voglioso di fare del bene alla tradizione della nostra commedia. Per citare Vittorio Gassman in "C'eravamo tanto amati", il futuro è già passato e non ce ne siamo accorti.
20/02/2017