La scelta di aprire la 72esima edizione del Locarno Film Festival con l’opera prima di Ginevra Elkann rappresentava un atto di coraggio sia per la direttrice della manifestazione che per l’autrice italiana. Entrambe alla prima esperienza nei rispettivi ruoli sia Lili Hinstin che la Elkann avevano qualcosa da dimostrare e dunque da perdere. Alla prima si chiedeva di aprire il nuovo corso con un segno capace di voltare pagina rispetto al Cursus honorum di chi - Carlo Chatrian - le aveva lasciato il testimone nella guida del festival, alla sorella di John e Lapo, quella di allontanare i sospetti di un carriera in qualche modo pilotata dal prestigio e soprattutto dalla storia del nome con cui volente o nolente la nostra si deve confrontare.
Celebrata anche in pubblico nel corso della presentazione del film nell’emozionante cornice della Piazza Grande, l’unione d’intenti è stata legittimata sia sul piano formale, con la decisione delle due donne di presentarsi vestite con abiti da sera dello stesso colore rosso sia su quello emotivo, caratterizzato dall’emozione che per ambedue ha accompagnato l’esperienza del grande debutto. Un’attitudine, quella di mostrarsi per ciò che si è e soprattutto una predisposizione d’animo, quella di raccontarsi sulla scia dei propri sentimenti che, a conti fatti, sembrano appartenere alla Elkann come persona e anche nelle vesti di regista. La sincerità è infatti, e non a caso, la qualità migliore del suo repertorio, quella che nelle quasi due ore di proiezione non abbandona mai lo sguardo dell’autrice, impegnata a raccontare se stessa attraverso le vicissitudini di tre fratelli - Seb, Jean e Alma -, figli di genitori separati, e dunque alle prese con una missione impossibile: quella di rubare tempo, spazio e un po' d’amore alle stravaganti vite degli adulti, pronti a fare il possibile e ancora di più per complicare anche quelle dei più piccoli. A cominciare dalla decisione della madre di lasciare Parigi per trasferirsi in Canada, non prima di aver spedito i tre marmocchi dal padre per quello che, a tutti gli effetti, si profila come il commiato alle speranze dei bambini nei confronti di una futura ricomposizione famigliare.
Con alle spalle una coraggiosa carriera da distributrice indipendente che l’hanno vista spesso in prima fila nella promozione del cinema d’autore più intransigente e iconoclasta (è stata la sua Good Films a permette la visione italiana dello "scandaloso" "Nymphomaniac"), la Elkann non smentisce il suo cotè internazionale e neppure la sua vocazione cinefila, mettendo in scena un film che sembra ritagliarsi il proprio spazio guardando non solo all’Italia (e per esempio a Luigi Comencini) ma anche ai film della nouvelle vague, tenendo insieme i due modelli con con un intimismo e una leggerezza che non viene meno anche quando sarebbe grossa la tentazione di alzare i toni della contesa, per dare sfogo a eccentricità come quelle della madre, la cui conversione alla religione ortodossa ha trasformato in una fervente beghina e del padre (Riccardo Scamarcio), farfallone con le donne (nonostante la presenza al suo fianco di Alba Rohrwacher) e inconcludente nel suo lavoro di sceneggiatore cinematografico. E qui sta il punto, perché a mancare in "Magari" è il coraggio della zampata finale, quella che con un po' più di scorrettezza politica poteva e, anzi, doveva dare sostanza all’originalità dello sguardo. In parte giustificata dalla scelta del punto di vista che privilegia l’ingenuità e la fantasia dei tre adolescenti - con quello che ne consegue in termini di realismo magico - alla concretezza e all’egoismo degli adulti, la regia della Elkann si carica di nostalgia e di tenerezza - per i genitori, per se stessa e propri fratelli - attraverso una rappresentazione che nel contrasto tra l’armonia dei quadri e la preponderanza di una colorazione scura e desaturata, riesce a ricomporre la dialettica tra il mondo ideale, quello sognato dai bambini, e quello pratico, organizzato per loro dai genitori. Per facilitare la comprensione di quanto detto si potrebbe considerare lo scarto esistente tra "Magari" e uno fra "È più facile per un cammello" (2003) e "Un castello in Italia" (2013) di Valeria Bruni Tedeschi, la quale partendo da premesse autobiografiche e da un contesto famigliare abbastanza simile (e in qualche modo contiguo per via della Fiat) riesce a essere più spavalda e corrosiva nei confronti della “propria" storia pur non facendo mancare affetto e condivisione ai suoi doppi narrativi. E dunque il troppo amore dell’autrice per la materia del suo film a impedirle di sporcare un po' di più la narrazione, conferendogli quella vita che a volte rende più dolorosa ma anche vitale la finzione cinematografica.
cast:
Riccardo Scamarcio, Alba Rohrwacher, Milo Roussel, Céline Sallette, Brett Gelman
regia:
Ginevra Elkann
distribuzione:
BIM
durata:
104'
produzione:
Wildside
sceneggiatura:
Ginevra Elkann, Chiara Barzini
fotografia:
Ginevra Elkann
scenografie:
Roberto De Angelis
montaggio:
Desideria Rayner
costumi:
Sergio Zambon
musiche:
Riccardo Sinigallia