Due film di guerra, due modi diversi di raccontare il riscatto dalle umane aberrazioni. In "
Monuments Men" di George Clooney è l'arte di quadri e sculture a ispirare ideali di una civiltà perduta attraverso la missione del gruppo di esperti incaricato di recuperare le opere trafugate dai nazisti durante il periodo dell'occupazione. In "Lone Survivor" di Peter Berg, invece, sono valori come l'amor di patria e lo spirito di fratellanza a sublimare l'inferno in cui viene a trovarsi la pattuglia di
Navy Seals abbandonata a se stessa, e alle prese con il fuoco di fila delle milizie talebane.
Ignorando per un momento le implicazioni morali conseguenti alle scelte dei due registi, e prima di entrare nei dettagli del lungometraggio che in questa sede ci interessa, a saltare all'occhio è un paradosso tutto cinematografico, scaturito dalla visione di due film che arrivano, più o meno consapevolmente aggiungiamo noi, a invertire il principio estetico in base al quale sono state informate. Così se "Monuments Men" parte con l'intento di ricostruire il dato storico attraverso i codici di quell'intrattenimento spettacolare e poco verosimile delle grandi produzioni hollywoodiane, e finisce per assorbire all'interno di una riflessione etica i voli della sua fantasia, "Lone Survivor" fa esattamente l'opposto, filmando un
combact film destinato a trasformarsi con il passare dei minuti in un cruento
action movie. E se nel primo caso l'inconveniente finisce per dare peso a un film che rischia l'inconsistenza, l'incongruenza di "Lone Survivor" innesca una serie di osservazioni che riguardano la materia cinematografica, ma non solo. Ci riferiamo innanzitutto alla struttura del film, che appare blindata da un prologo e un epilogo più significativi di quello che sembra, non soltanto perché si tratta di inserti che seppur collegati al resto della storia appaiono a se stanti per la natura documentaria, ma soprattutto per le conseguenze di senso che riversano sul resto del film. L'apertura infatti fa da preambolo alla vetrina di virtù e codici guerreschi che seguiranno, con la selezione della tribù guerriera sintetizzata dalle immagini che certificano la cosiddetta "settimana d'inferno" in cui i candidati devono superare prove ai limiti dell'umano, e dove persino la sconfitta - enfatizzata dal rito di posare a terra l'elmetto e suonare la campana - diventa un segno di potenza e virilità. La fine invece, una sorta di album fotografico dedicato ai veri protagonisti della vicenda, riporta la storia che abbiamo appena visto a una dimensione umana e famigliare dopo gli orrori del combattimento, con il viso felice dei soldati insieme ai propri cari, a ricordarci il valore del loro sacrificio.
Rispetto al generoso minutaggio, il film paradossalmente si gioca le sue carte attraverso queste due brevi appendici; dapprima fabbricando, attraverso lo
spot che ci mostra le doti di resistenza al dolore e allo sforzo fisico dei futuri soldati, una giustificazione all'incredibile, e diciamo noi, inverosimile tenacia che permette alla pattuglia di rimanere attiva nonostante le menomazioni fisiche provocate dagli attacchi nemici. Successivamente, prima dei titoli di coda, arriva a condensare il significato dell'intera vicenda nella perdita di vite umane (americane), enfatizzata dal contenuto delle fotografie, e nel valore positivo di un esempio che in quel contesto di commozione chiude la porta ad eventuali critiche e riflessioni sui motivi che l'hanno provocato.
Il risultato è ambivalente perché se è vero che il meccanismo di genere funziona alla perfezione, assicurando al film di essere seguito con il cuore in gola e senza un attimo di tregua, dall'altra il presupposto di credibilità messo in piedi prima e sostenuto poi dallo stile realistico delle riprese, finisce per aumentare la discrepanza con lo svolgersi della vicenda, e qui ci riferiamo alla parte centrale del film in cui la rocambolesca e drammatica esfiltrazione della pattuglia sotto il fuoco del nemico è resa con una serie di capitomboli mortali lungo una pietraia da cui però i quattro uomini pur feriti ogni volta si rialzano pronti a ripartire. Mentre sul piano ideologico, senza addentrarsi sulla questione morale che un film del genere comunque pone, non si può non notare una serie di imprecisioni che favoriscono la spettacolarizzazione del contenuto, come quella che non mette in conto la rottura di armi e ottiche di mira al primo impatto con il terreno accidentato, e che invece continuano a funzionare con invariata efficienza anche dopo una serie di urti violentissimi; oppure la parziale mancanza del silenziatore che nel caso di una pattuglia di ricognizione combinata è previsto per fucili e pistole. Per non dire di una certa estetica della violenza che a un certo punto prende il sopravvento con un ralenti che insiste sul corpo martoriato dai colpi di un'esecuzione a sangue freddo. Particolari trascurabili in un film comunque tutt'altro che tirato via, però rilevanti ai fini della nostra analisi. Speculare nella progressione dei fatti a "Pattuglia Bravo 2.0" di Tom Clegg (1999), in cui analogamente al film di Berg il fallimento della missione dipende dalla decisione di lasciar andare i testimoni oculari incontrati per caso dalle forze speciali durate il percorso di avvicinamento all'obiettivo, "Lone Survivor" sconcerta e provoca disagio.
19/02/2014