Le migliori qualità de "Lo spietato" sono l’interesse per il vissuto coscienziale del suo protagonista e la capacità di comunicarlo attraverso la rappresentazione del suo contesto sociale. Per descrivere la vertiginosa parabola del personaggio di Santo Russo – giovane calabrese cresciuto tra la periferia milanese e il riformatorio, presto lanciato con successo nel mondo della criminalità organizzata - l’adattamento cinematografico del romanzo "Manager Calibro 9", diretto da Renato De Maria e uscito nelle sale per tre giorni come un film-evento (vedi distribuzione imminente di Netflix), ambienta infatti la storia di mafia in un’architettura che promette il collasso e invece è già collassata.
La psicologia del mondo finzionale, ispirato a eventi realmente accaduti, è espressa attraverso il codice di un’estetica quasi pulp, allo stesso tempo verniciata e sporcata, viziata da un grigiore color ferro che promette la ruggine dopo lo splendore cromato. È attraverso queste intuizioni visive che il film, distanziandosi con personalità da un punto di vista formale dalla concorrenza di genere, comunica l’atmosfera (carica di presagi) dell’evoluzione professionale e psicologica di un criminale innamorato di una Milano già involuta in se stessa e quindi deciso al masochistico tuffo in una storia d’amore destinata a finire senza lieto fine e senza redenzione. Scamarcio è una maschera perfetta – perché già vinta e comunque arrogante - che plastifica in espressioni i passaggi mentali ed emozionali di Santo.
La storia si svolge quindi nella cornice di un crollo impossibile da interrompere – gli anni di piombo si annacquano a bordo dei drink della Milano da bere – e di un teatro allucinato, in cui il personaggio, interpretando il ruolo di un imprenditore malavitoso, trova il palcoscenico per liberare un’ossessione giovanile incrostata nei ricordi e manifestata nella ricerca del successo maschile e criminale: l’attrazione sessuale per una perfezione intoccabile e dorata, per una forza attraente, cercata allo stesso tempo nei soldi, nello status e in più donne; prima nella ingenuità virginale di una moglie e poi nell’imprevedibilità di un’amante francese. Il film trova in questa motivazione trainante una peculiarità psicologica appassionante e imprevedibile, perché perversa e irrisolta, e infatti su questo snodo mentale incentra buona parte della sua storia, fino a quando non semplifica il costrutto narrativo.
Le potenzialità incendiarie della seduta psicanalitica del criminale sono spente dal peso di un grosso intrecciarsi di linee narrative, di ricambi di svolte di percorsi a ritroso, che non solo perdono la genuinità malata del racconto di educazione sentimentale della prima parte – arricchita nella semantica da momenti da commedia nera, con episodi di follia e colpi di genio, come il travestimento da carabinieri o il test di qualità della droga – ma anche costringono la storia a infossarsi in vicoli di senso senza uscita, che scarificano lo scavo psicologico per movimentare gli eventi e si dimenticano di quell’intuizione iniziale in cui la vicenda trovava una riuscita costruzione di senso: quella fame sessuale verso la purezza femminile responsabile inconscia dello sfogo nel crimine, che poteva contraddistinguere Santo dagli altri criminali della nostra cinematografia più del colore dato dall’alternanza divertita di dialetto milanese e calabrese.
La potenza del film rimane sempre in quello sguardo annoiato e senza tensione, che pensa all’assassinio e non lo giustifica come evento necessario, bensì lo legittima e lo identifica come un movimento erotico, che se non ha senso o gusto, allora non va commesso e non va consumato. A predominare dall’inizio della seconda metà, però, è la convenzionalità che, nell’inseguimento a pilota automatico di snodi di drammaturgia già vista, cresce sopra le intuizioni visive tra gli ultimi momenti di criminalità e la confessione spiegata all’indietro. Nello scarto tra l’entusiasmante variazione stilistica e tonale sul tema e l’improvvisa flessione in una catena di situazioni già viste si colloca quindi la mezza delusione per un prodotto che poteva raggiungere vette qualitative importanti ma sembra alla fine volersi accontentare di arricchire, come visione interessante e compatibile, il catalogo di contenuti italiani nel servizio streaming.
cast:
Riccardo Scamarcio, Sara Serraiocco, Alessio Praticò
regia:
Renato De Maria
distribuzione:
Nexo Digital, Netflix
durata:
91'
produzione:
Bibi Film, Rai Cinema, Indie Prod
sceneggiatura:
Renato De Maria
fotografia:
Gian Filippo Corticelli
scenografie:
Giada Esposito
montaggio:
Clelio Benevento
costumi:
Maria Rita Barbera
musiche:
Riccardo Sinigallia