Quando Jep Gambardella domanda, nell'intervista concessagli in esclusiva a Suor Maria, per quale motivo essa si cibi esclusivamente di radici, la risposta dall'intonazione mistica che "la Santa" gli fornisce lo lascia ammutolito: "Perché le radici sono importanti".
Certo "Lion", esordio sul grande schermo di Garth Davis basato sul libro di memorie si Saroo Brierley, si muove su tutt'altro piano e con tutt'altro intento rispetto a "
La grande bellezza" di Sorrentino, tant'è che le due pellicole sembrerebbero essere più che mai distanti, e in effetti lo sono. Ma è proprio il tema della ricerca della propria origine, è proprio l'importanza delle proprie radici a costituire l'impalcatura dell'opera del giovane regista australiano.
"Lion" racconta infatti la travagliata vicenda di Saroo: un ragazzo di origine indiana, perdutosi da bambino e adottato in seguito da una coppia di Sydney. In Australia Saroo è cresciuto, si è diplomato e ha trovato l'amore. E tuttavia, pur avendo disimparato l'hindi e dimenticato il nome del suo Paese, non ha mai dimenticato suo fratello, sua madre e la sua casa. Il richiamo del proprio passato si fa sempre più forte in lui fino a diventare un'ossessione; la sensazione che la sua famiglia non si dia pace per la sua scomparsa lo tormenta giorno e notte e lo costringe a una lunga ricerca della propria origine.
Le premesse del film e il suo soggetto sembrerebbero lasciare spazio a un'interessante analisi sul valore della propria origine e della propria cultura: analisi che sembra d'altra parte esser portata avanti in alcune scene, come nel dialogo del protagonista con la madre adottiva (Nicole Kidman) in cui si riflette su come l'adozione di un bambino comporti anche l'adozione dei traumi e delle gioie del suo passato; su come sia possibile disimparare la propria lingua madre, ma del tutto impossibile liberarsi della propria storia, della foresta in cui si è nati che fa sempre suonare il suo familiare richiamo, come è nel capolavoro di Jack London.
Purtroppo però l'analisi in questa direzione procede a rilento e in maniera affatto superficiale. Dopo un lungo preambolo abbastanza convincente illustrante l'odissea del piccolo Saroo che lo conduce all'adozione da parte dei nuovi genitori, il ritmo della narrazione sembra dilatarsi eccessivamente. Colpevole di ciò anche la scelta di inserire nella sceneggiatura storie parallele che non trovano però il tempo di essere sviluppate a dovere: il complicato rapporto col fratello Mantosh, è di tanto in tanto accennato e risolto poi repentinamente, senza una sufficiente esposizione che renda chiare allo spettatore le dinamiche del dissidio; la storia d'amore con Lucy rimane anch'essa una linea narrativa piuttosto insipida e mal gestita, capace di rendere l'interpretazione di Rooney Mara decisamente mediocre, ben distante dall'interessante prova attoriale che meno di un anno fa potemmo gustare nel "
Carol" di Todd Haynes.
La pellicola torna fruibile nell'epilogo: nel viaggio di Saroo in India e nel ritrovamento della famiglia, con la quale gli è ormai impossibile comunicare senza l'aiuto di interpreti. Le emozioni della riconciliazione regalano allo spettatore amante dei sentimentalismi qualche momento di commozione: carta giocata a fine partita nell'improbabile tentativo di far scordare al pubblico la confusione dell'esposizione centrale e la sua cattiva gestione: una toppa non sufficientemente ampia per coprire le lacune di un film che poteva essere interessante, ma che non ha avuto il coraggio di lavorare sulla profondità.
Apprezzabile se non altro la capacità di non cadere in un facile etnocentrismo nei rapporti tra la cultura occidentale/australiana e quella indiana: l'opera infatti evita di arenarsi nell'analisi di complessi fenomeni culturali e sociali, come molto cinema continua a fare, rimanendo piuttosto nel proprio spazio e considerando solamente il legame universale e inevitabile che ognuno di noi ha con il proprio passato.