Quando la proiezione di un film crea uno stato di intensa empatia tra il pubblico e lo schermo, amplificato dalla presenza in sala del cast, di un antidivo per eccellenza come Joaquin Phoenix o di un "genio della porta accanto" come Spike Jonze, risulta poi difficile discernere la partecipazione emotiva da un'analisi raffreddata dal post-visione. Confessiamo che è un dilemma serio cui il nuovo lungometraggio del regista di Rockville ci costringe. Ma andiamo per ordine.
Cominciamo con il sottolineare un aspetto: Jonze, dall'alto della sua visionarietà e del rifiuto per registri narrativi preconfezionati, è sempre stato criticato dai suoi detrattori per una sorta di autoreferenzialità nella messa in scena. Troppo esasperato il suo gusto per uno stile votato allo stupore. Ma, in realtà, la sua poetica è molto più "romantica" di quanto sia stata troppo superficialmente classificata. Che cosa hanno in comune il John Cusack di "Essere John Malkovich", il Nicolas Cage de "Il ladro di orchidee" e il piccolo protagonista di "Nel paese delle creature selvagge"? L'aspirazione all'essere amati, la ricerca della felicità ultima che consiste nel sentirsi parte importante della vita altrui. E così, già nelle sue opere precedenti, Jonze aveva evidenziato una predisposizione a costruire protagonisti melanconici, frustrati il più delle volte dall'anonimato e dalla quotidianità.
Stavolta, come a scolpire su pellicola questo assunto, il cineasta statunitense ha deciso di consacrare l'intero film a questa convinzione. Per farlo, ha bandito la sperimentazione narrativa o visiva, ha scritto una sceneggiatura di impianto classico nella sua linearità e ha affidato al trucco del paradosso insito nella storia raccontata il compito di confermare il suo non allineamento ai dettami dell'industria hollywoodiana. Il paradosso, la provocazione, l'invenzione scatenante: non è nient'altro che questo l'ambientare il film in un futuro prossimo, in cui le persone sono diventate incapaci di comunicare, affidano a dei professionisti il compito di scriversi lettere ed e-mail e vivono accompagnati da sistemi operativi ultraintelligenti, capaci di pensieri autonomi e coscienza propria.
Samantha, il marchingegno comprato dal protagonista Theodore, è questo: nient'altro che una macchina senziente, un frutto estremo della tecnologia in grado di acquisire dall'essere umano quello che serve per costruire, pezzo per pezzo, una vera anima. Succede dunque che, se questo particolare computer ha la voce suadente di Scarlett Johansson e dei modi languidi ma dolci di una donna ideale, fra l'uomo e la macchina possa anche esserci una storia d'amore. Eccola la trovata di Jonze. Questa volta l'uomo che cerca l'amore, che non riesce a vincere la solitudine, è nella vita virtuale che trova rifugio.
Il regista ha in tutti i modi ripetuto che il film non voleva essere un minitrattato sociologico sull'inaridimento dei rapporti umani. Voleva piuttosto "usare" l'espediente del tempo futuro per mettere in scena, molto più semplicemente, una storia romantica, descrivendo un uomo dilaniato dal dolore di un matrimonio finito e incapace di proseguire il cammino in solitario. Il film, nella prima metà, allorché è il dramma umano e sentimentale di Theodore ad essere messo in scena, nasconde, fra le pieghe di uno stile che strizza fin troppo l'occhio all'estetica e alle consuetudini indie, momenti di incontenibile emozione. Affidando a muti e improvvisi flash della vita di coppia passata il ricordo di un'esistenza felice, Jonze si fa aiutare anche dalla fotografia, che passa dai toni più morigerati che fanno il verso al cinema americano degli anni 70 a una luce quasi accecante dei flashback, per amplificare l'effetto malinconico e struggente dell'uomo distrutto.
Ma se dal punto di vista più strettamente registico la pellicola tiene per tutta la sua durata, alternando emozionanti riprese in esterni agli asfissianti primi piani sul volto dell'impareggiabile Phoenix, è proprio dove alligna la novità più interessante del cinema di Jonze che l'opera desta perplessità e tende a raffreddare il giudizio complessivo. È nella scrittura dello script, infatti, che l'autore si dilunga con evidente indecisione sulla piega da far prendere alla relazione fra Theodore e Samantha. Oscillando tra un registro "problematico" sulla difficoltà del relazionarsi con un essere inumano e invece un piano più sentimentale legato al passato di Theodore ancora così opprimente, Jonze si trova anche nell'imbarazzo di dover motivare alcune svolte narrative incongruenti, quali, ad esempio, la deriva super-tecnologica dei sistemi operativi. Viene quasi il sospetto che il tappeto musicale degli Arcade Fire, che sul finale tende a risultare invadente, sia quasi utilizzato per sciogliere i cuori e le menti degli spettatori quando l'intreccio giunge a dei punti morti.
Un film a due facce: disordinato e pasticciato nella scrittura e nella scelta della sequenza di eventi mostrati, ambizioso e straripante nel suo desiderio di volersi ergere a poema che canta il sentimento e il dolore di chiunque, come di chiunque sono i tentativi di Theodore, tra un incidente di percorso e l'altro, di rialzarsi ancora una volta e riprendere la marcia.
cast:
Joaquin Phoenix, Olivia Wilde, Amy Adams, Rooney Mara, Chris Pratt
regia:
Spike Jonze
titolo originale:
Her
durata:
125'
produzione:
Annapurna Pictures
sceneggiatura:
Spike Jonze
fotografia:
Hoyte Van Hoytema
scenografie:
K.K. Barrett
costumi:
Casey Storm