Il cinema dell'America Latina rappresenta da tempo un fiore all'occhiello della produzione mondiale, con pellicole premiate nei grandi festival e registi destinati a diventare noti a livello internazionale, magari invitati poi a lavorare a Hollywood e dintorni. Generalmente però queste considerazioni riguardano paesi come Messico, Brasile e Argentina; capita invece molto di rado di sentire parlare in tal senso di opere provenienti dal Paraguay. "Le ereditiere", esordio nel lungomentraggio di Marcello Martinessi, finora regista di corti, rappresenta quindi una bella occasione per il cinema realizzato dalle parti di Asunciòn. Presentato in concorso quest'anno al festival di Berlino, il film ha ottenuto due riconoscimenti importanti (il premio Alfred Bauer e la migliore attrice, andato ad Ana Brun) ed è stato anche selezionato per rappresentare il suo paese nella prossima corsa all'Oscar per la categoria film straniero. In Italia esce distribuito da Lucky Red.
La storia è un ritratto di borghesia non più agiata. Chela, donna sessantenne appartenente ad una famiglia un tempo benestante, deve fare i conti con la crisi economica e personale. Lei e la sua compagna di una vita, Chiquita (Margarita Irun), per tirare avanti sono costrette a vendere (e in alcuni casi a svendere) tutto quello che possiedono, dall'argenteria alla mobilia, facendo pure un pensierino alla mercedes. Essendo molto orgogliosa, Chela rifiuta risolutamente ogni tentativo di aiuto anche da parte delle amiche più care, sta attraversando un periodo di depressione e delle due è Chiquita a barcamenarsi per tenere la barca pari. Quando, a causa di un debito non pagato, Chiquita è costretta a trascorrere un periodo in prigione, per Chela inizia un nuovo capitolo. Ricomincia ad uscire, non solo per fare visita alla compagna in carcere, a guidare (ma non ha la patente), reinventandosi pure come autista personale di un gruppo di anziane, anche loro ormai costrette, nonostante l'agiatezza cui erano abituate, a fare i conti con la fine del mese. Se a inizio film la protagonista si alza dal letto a fatica e non ha il coraggio neanche di guardare in faccia le signore che le vengono in casa per cercare qualcosa da comprare, limitandosi a spiarle dalla stanza accanto, col tempo inizia a trattare con loro, impeccabilmente spalleggiata da Pati, la giovane domestica che Chiquita ha assunto per aiutare Chela nel periodo in cui lei non sarebbe stata in casa, e che per lei presto diventa un braccio destro (questa sensibilità verso la figura della domestica crea un rimando fra questo film e il Leone veneziano "ROMA").
L'identificazione di una donna realizzata da Martinessi prevede, nel suo raccontare il ritorno alla vita di Chela, il suo riscoprire desideri ed emozioni. Visto che il pur solido legame con Chiquita, con gli anni e per via delle varie vicissitudini ha perso di passione, l'incontro con Angy, la nipote di una delle nuove clienti di Chela, per la donna è un vero vento di novità. Tanto lei è introversa, timida, di poche parole, tanto Angy è disinvolta, pimpante e ciarliera. Col tempo Angy si aggiunge al numero delle clienti e Chela, pur se nella discrezione che la caratterizza, non può fare a meno di subire il fascino di questa donna più giovane e così seduttiva. Forse ad un certo punto l'amicizia può anche diventare qualcos'altro ma Chela non è in grado di cogliere al volo l'occasione (per poi pentirsene). Il ritorno a casa di Chiquita (il cui buon umore non è stato scalfito neanche dai mesi di prigione, anzi nell'ambiente carcerario ha saputo trovarsi a proprio agio e forse anche lei ha fatto nel frattempo un nuovo incontro, sebbene la sceneggiatura in questo scelga di non approfondire più di tanto) potrebbe riportare la situazione alla routine che si era stabilita negli anni, ma Chela (comprensibilmente) non accetterà di tornare indietro.
"Le ereditiere", progetto concepito all'interno di uno di quei cinelaboratori che stanno diventando sempre più frequenti nei festival cinematografici, si segnala per atmosfere rarefatte (alle quali non si sottrae certamente il finale aperto) e per uno stile scarno che riprende con attenzione gli ambienti sobri ma cupi in cui i personaggi sono inseriti, in questo assecondato bene dal direttore della fotografia Luis Armando Arteaga. Lo sguardo sulle attrici è fine, come si nota anche dal modo di riprenderle nei momenti più intimi; agli spettatori italiani poi è possibile che ammirando il gioco (non sempre essenziale) di Ana Brun e delle sue compagne di set (molte delle quali al primo impegno cinematografico dopo precedenti esperienze teatrali) tornino in mente interpreti del cinema nostrano come Giulietta Masina, Pupella Maggio o Adriana Asti. È sicuramente interessante un'opera che dedica attenzione a figure femminili non più giovani, raccontandone non solo le difficoltà, anche se il calor bianco delle situazioni a volte può fare rimpiangere un cinema sempre asciutto ma maggiormente in apertura (si pensi ai lavori dell'argentino Marco Berger).
21/10/2018