Il prerequisisto per poter amare senza dominare l'altro è che il tuo corpo impari, dal momento in cui abbandona il ventre della madre, che può morire. Quando si accetta il fatto che la morte è una parte della vita, non la si teme più e non si ha più paura di qualsiasi altra "fine"; ma finché si vive con la paura della morte, si reagisce in modo identico rispetto alla fine di una relazione e, come risultato, l'amore che pure esiste viene pervertito. (Rainer Werner Fassbinder)
Nel 1972 Rainer Werner Fassbinder ha già una prolifica filmografia alle spalle, mentre due film (Händler der vier Jahreszeiten e Die bitteren Tränen der Petra von Kant) e un serial televisivo (Bremer Freiheit) saranno conclusi nello stesso anno. Una carriera breve, che si consuma in appena tredici anni, ma che consegna al tempo immortale ben trenta lungometraggi, tre corti, due film per la tv, due serial (senza contare il lavoro drammaturgico e radiofonico). Una fame creativa pantagruelica dagli effetti sincretici - cinema, teatro e televisione si attraversano sino all'unisono -, e pur sempre in accordo agli intenti del Nuovo Cinema Tedesco.
L'esperienza dell'Antiteater è ormai declinata, con dieci film in meno di due anni esautora il suo percorso (1970-71) e Fassbinder si avvia a maturare un'autorialità compiuta e personale genuflessa al melodramma. Nello stesso periodo conosce personalmente Douglas Sirk, ha visto in sequenza caotica sei dei suoi film, "i più belli del mondo", e vi ha scorto un'aderenza infallibile alle dinamiche umane, un realismo che anziché essere mimetico e documentario è concettuale. Da quel momento diventa il suo obiettivo, liberare il senso della realtà: levigare di oggettività l'autobiografismo insito alle sue opere, ampliarne il respiro e rivolgersi allo spettatore secondo nuovi paradigmi. Su questi assunti nasce "Le lacrime amare di Petra Von Kant", trasposizione della sua pièce omonima.
Petra è una stilista di moda, separata dal marito, trascorre una vita agiata con Marlene, tuttofare silente e asservita. Quando conosce Karin, una ragazza dall'umile origine proletaria, se ne innamora e lei sembra corrispondere. L'idillio, però, è destinato a concludersi per far interloquire il tragico.
"L'amore è più freddo della morte", primo lungometraggio del cineasta tedesco, concerneva già un menage a trois - che, come si intuisce dall'intreccio, ritorna in questo film - mentre la tragicommedia scritta da un diciannovenne Fassbinder, "Come gocce su pietre roventi", adombrava per la prima volta una tematica ricorrente e ossessiva in questa sterminata filmografia, il rapporto d'amore come sistema gerarchico di potere.
Il regista fa sua la lezione hegeliana della dialettica fra servo e padrone che diventa il sistema di riferimento privilegiato per decodificare e dissacrare la realtà dall'epica. Ogni volta che due persone si incontrano e stabiliscono una relazione si tratta di vedere chi domina l'altro: è questa la dichiarazione che enuclea il noumeno fassbinderiano, questo il fulcro di una poetica che necessita di rigorosi espedienti formali per stagliarsi negli occhi dello spettatore e scendere fino al cuore.
L'importanza della messinscena
"Le lacrime amare di Petra Von Kant" è un kammerspiel dall'impostazione marcatamente teatrale: una manciata di attori, recitazione innaturale, un proscenio. La possibilità offerta da questa scelta formale è sostanziale poiché modifica il ruolo della cinepresa, che se prima era strumentale allo spettatore che partecipava a una narrazione con cui poteva empatizzare, ora, dovendo collimare con un ambiente claustrofobico e artefatto, impedisce allo stesso di sentirsi parte della rappresentazione e restituisce la giusta distanza fra spettatore e autore, assicurando un grado maggiore di "oggettività". La possibilità finale di emancipare il proprio sentire dalla direttrice tracciata dal regista.
Le pose plastiche e inverosimili degli attori, il cromatismo ostentato e drammaturgico (il colore ha un ruolo narrativo), gli oggetti che interferiscono con la pulizia dell'inquadratura - a rendere visibile e disturbante la presenza della cinepresa - la sequela dei tableaux vivants, concorrono a fare di questo film apologia della messinscena. La strenua ricerca dell'artificio, del bello estetizzante, del surplus manierista, è il cammino che il regista tedesco intraprende, inaugurando uno stile, per avvicinarsi al vero, che è "intuito" attraverso l'adesione emotiva, non essendo più un derivato preconfezionato. Sembra un paradosso cogliere il vero attraverso la finzione, come l'esperienza e i film di Fassbinder, tutto si circostanzia di contraddizioni, dai lavori così traboccanti di vita, e altrettanto di morte, alla sua tensione disperata alla ricerca dell'amore e la sofferenza che ne fa le veci.
Il letto, al centro del proscenio, sembra un protagonista statico del film attorno al quale deflagra il caos delle passioni. Nondimeno, come oggetti chiamati a presenziare alla recita dell'ineluttabile, i protagonisti sono relegati all'immobilismo esistenziale e, alla fine dei 124 minuti, saranno ricondotti alla condizione iniziale: Karin ritornerà dal marito, Petra a una condizione ancora più estrema di solitudine con il suggello iconico di "Un dì felice" e Marlene se ne andrà dall'appartamento per cercare altrove di ricreare quella condizione di asservimento perduta. Sovrappiù le parrucche indossate da Petra non si aggiungono a uno sterile novero camp ma sono esteriore allegoria della doppiezza che inaridisce un milieu soverchiato dall'oppressione sociale, il rapporto di dominazione si estrinseca anche a livello economico (in ossequio alla dialettica marxista) - disporre di molto denaro permette di porsi in una condizione di "superiorità" e la sua mancanza conduce al parassitismo e alla subordinazione. Tre donne dalla pelle diafana e i lineamenti austeri, Margit Carstensen, Hirm Hermann, Hanna Schygulla, occupano il centro visuale della scena mentre sullo sfondo si dilata una riproduzione di "Mida e Bacco" di Poussin che, con il suo trionfo di rosso sanguigno, di articolazioni possenti e pose estatiche, fa da contraltare classicista alle dee di una potenziale anti-epica kitsch. Vestite ora in colori discordanti, ora nel nero univoco di Marlene, cristallizzano la ricerca di Michael Ballhaus di una contrapposizione cromatica che suggerisca visivamente differenze e ossessioni, anziché limitarsi a dècor.
Come riesca Fassbinder a movimentare la non-azione all'interno di uno spazio residuale, è presto detto: la profondità di campo amplia gli spazi, la disposizione dei piani cambia a seconda della relazione tra i protagonisti, gli oggetti e i complementi d'arredo concorrono a stabilire la perfetta geometria delle immagini e a moltiplicare i livelli: il lembo di una panca si sostanzia nel mezzo dell'inquadratura e discrimina lo scisma siderale fra le amanti; gli specchi rifrangono l'immagine di Petra, sono un debito sirkiano e un espediente per filmare la falsa coscienza borghese. Di apparenza e retorica si (tra)vestono le donne del melodramma fassbinderiano, l'ipocrisia con cui la protagonista discetta di libertà e indipendenza verrà presto smascherata dal procedere smanioso degli eventi verso gli abissi della sua (dis)educazione sentimentale. La passione debordante per Karin la trascina in un inferno parossistico contrappunto di isteria e alcolici svuotati fino a comporre la raggelante auto-coscienza di non aver amato, ma voluto possedere. Tenterà di avvicinarsi a Marlene con una dolcezza inusitata, ma lei se ne andrà. A questo punto, Petra sarà definitivamente atterrita, sopraffatta dalla nemesi che si confà all'individuo avviluppato fra le spire del lancinante desiderio di essere amati, anziché d'amare.
cast:
Margit Carstensen, Hanna Schygulla, Katrin Shaake, Irm Hermann, Eva Mattes
regia:
Rainer Werner Fassbinder
titolo originale:
Die bitteren Tränen der Petra von Kant
durata:
124'
produzione:
Filmverlag der Autoren, Tango Film
sceneggiatura:
Rainer Werner Fassbinder
fotografia:
Michael Ballhaus
scenografie:
Kurt Raab
montaggio:
Thea Eymèsz
costumi:
Maja Lemcke
musiche:
Giuseppe Verdi, The Platters, The Walker Brothers