Ne "Gli abbracci spezzati" Almodóvar trasformava in fredda maniera i tumulti sentimentali del melodramma e rielaborava in prevedibile narrazione metacinematografica le contorte relazioni dei protagonisti; con quest'ultima fatica il regista spagnolo affonda il bisturi direttamente nella carne dei propri personaggi, e cerca di ricostruire il rapporto amoroso non più attraverso la percezione visiva (mancante) ma col contatto della pelle.
Il chirurgo plastico Robert Lendgard nasconde nella sua villa, ex-clinica privata, il suo esperimento più prezioso: una donna di nome Vera. Dopo poche immagini intuiamo che Vera è una finzione: non c'è bisogno di esplicitazioni retrospettive, né dei metaforici pupazzi di iuta che lei costruisce nella sua stanza, è la pelle che ce lo dice. Lo sguardo di don Pedro si sofferma sugli occhi, sui dettagli del viso, quell'incarnato così bianco così liscio così perfetto non può essere umano. La pelle di Vera è un simulacro sintetico, un esperimento trans-genetico, il feticcio delle ossessioni dello scienziato Lendgard, distrutto dal dolore per i suicidi delle due donne che amava. La moglie che si era gettata dalla finestra dopo aver visto il suo volto sfigurato per un incidente d'auto, precipitando accanto alla figlia, che giocava in giardino; la ragazza, già traumatizzata, dopo uno stupro avvenuto durante una festa, si chiuderà in se stessa e si toglierà la vita nello stesso modo della madre. Robert aveva nel frattempo predisposto una vendetta agghiacciante...
Il chirurgo modella la pelle, l'esteriorità, e la modella a proprio piacimento: Vera è un progetto vivente, potrebbe essere anche una replica della figlia, col volto della madre. Ma Almodóvar allontana, spiegandoci con dei flashback cosa era successo precedentemente ai due personaggi (il film è ambientato nel 2012), il sospetto che "La piel que habito" possa essere un remake non dichiarato di "Occhi senza volto" di Georges Franju - anche se il film francese viene praticamente omaggiato. L'orrore prodotto dalla pellicola di Almodóvar è, tratto tipico del suo cinema, dovuto a un eccesso: un eccesso di amore, un amore spropositato che dilaga in perversione.
Alla fine, anche nel suo diciottesimo lungometraggio, l'autore castigliano torna a parlarci delle sue ossessioni: l'amore impossibile, il caos dei sessi, il corpo come oggetto del desiderio, ma anche di madri con "la follia nelle viscere" e fratellastri inconsapevoli.
In un convegno medico, Lendgard afferma che una persona con gravi ustioni al volto ha bisogno di una faccia per potersi riconoscere; non importa che sia sua o meno, l'importante è che ne abbia una per reimpadronirsi della sua identità. Pertanto, per il chirurgo, la pelle (che abitiamo) può ricodificare la nostra identità, può essere la nostra corazza per proteggerci contro gli agenti esterni dannosi. Il granitico teorema lendagardiano, posto all'inizio come monito e premessa, è ciò che Almodóvar demolisce con lo sviluppo e l'epilogo del film.
Si viene a creare ne "La pelle che abito" una strana convergenza tra due mondi autoriali finora molto distanti: già da quelle sequenze geometriche e asettiche della prima parte, che rappresentano un'ulteriore svolta stilistica, ci ritorna in mente David Cronenberg; e poi anche l'agnizione sul corpo di Vera, la confusione sessuale che comporta, ricordano il canadese ("M. Butterfly" ad esempio). Almodóvar sostituisce alle fantasie e alle pulsioni dei personaggi
cronenberghiani che non (si) riconoscono il (proprio) corpo, la dolorosa consapevolezza insita nei propri: al contrario, è allo spettatore che la verità viene svelata un poco alla volta - anche per questo motivo la partenza risulta farraginosa.
Almodóvar sottomette l'istintiva carnalità dei suoi soggetti a un rigoroso esercizio concettuale fondato sulla trasmigrabilità del corpo: l'estetica algida e senza guizzi ne è la conferma. Al contrario dei
feuilleton mediterranei, dei vivaci baccanali di incontri e di scontri ai quali Almodóvar ci ha abituato, almeno fino a "
Volver", ne "La pelle che abito" si predilige un intreccio teorico dove ogni particolare trovi alla fine il suo posto: il film, però, si comporta in maniera schematica, sentimentalmente catatonica come l'interpretazione di Banderas; altresì, bisogna evidenziare che la
mise en scène di chirurgica precisione, basata su una controllata progressione di doppi e sdoppiamenti, previene il grottesco effetto baraonda di quella parziale occasione mancata che fu "
La mala educación". Il lampo di follia estemporanea è comunque presente, rappresentato dall'irruzione nella villa del figlio di Marilla, travestito da tigre, che sembra una scena fuoriuscita dalla versione
camp di "Arancia Meccanica".
Per concludere, un applauso ad Elena Anaya, musa "in seconda" vista la defezione di Penelope Cruz, perfetta in ogni gesto ed espressione. In ogni centimetro quadrato della pelle.
24/09/2011