Nicola è matto. La malattia mentale lo accompagna dall'infanzia, dalla nascita, o, forse, da prima. Accompagna la sua famiglia, una madre internata e una nonna tocca che alleva galline e fornisce di uova il manicomio. Nicola, al manicomio, nell'istituto squallido e lercio annidato nelle profondità della provincia laziale dove è vissuta, e morta, la madre, ci finisce bambino, negli anni Settanta, e non ne uscirà più. Vessato dai fratelli maggiori, umiliato da una scuola, e da una maestra, incapaci di comprendere le sue difficoltà, si accoccola nell'antro manicomiale, dove, tra compagni messi peggio di lui e accudito da una suora non meno bizzarra dei degenti, troverà una sua dimensione, scandita dai rituali e dai ritmi di una quotidianità immutabile.
Dalla pièce "La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico" (2005), Ascanio Celestini ha tratto prima un libro, e, da qui, ha spiccato il salto per esordire, dopo due documentari, nel suo primo lungometraggio di fiction. Presentato in Concorso all'ultima Mostra del Cinema di Venezia, "La pecora nera", accolto alle proiezioni lagunari con favore e commozione, soprattutto, si suppone, per il tema delicato che affronta, va riconsiderato, ora, a mente lucida e mondata dalla frenesia festivaliera, per riconoscere che non certo di un capolavoro si tratta, ma anzi, di un film pesantemente sopravvalutato. L'origine teatrale, che di per sé, non costituisce un handicap, se la messa in scena (cinematografica) si rivela all'altezza, in questo caso, invece, grava non poco sulla riuscita della pellicola. E non basta, a Celestini, circondarsi di professionisti del cinema d'essai italiano (Ugo Chiti e Wilma Labate lo hanno affiancato nella sceneggiatura, Daniele Ciprì ha firmato la fotografia, Giogiò Franchini il montaggio, Valia Santella è stata assistente alla regia), per non incorrere nell'errore esiziale di inondare il grande schermo, come di un palco teatrale si trattasse, di quel fiume di parole e prodezze monologiche che caretterizzano le sue
perfomance dal vivo. La
voice over del protagonista, ossia Celestini stesso, narratore tecnicamente detto giustadiegetico, ma commentatore, sarebbe meglio definirlo, collante fra passato e presente, invade con un carico addosso di pleonastica ridondanza la prima parte, salvo poi interrompersi bruscamente (uno dei numerosi disequilibri della composizione) per intere sequenze. Mentre Nicola piccino, interpretato dall'esordiente (e ammirevole) Luigi Fedele, si produce, davanti alla ragazzina che gli piace (e che, da adulta, avrà il viso di Maya Sansa), in un sketch improvvisato dall'autocelebrativo sapore celestiniano. Se i matti, cantava Simone Cristicchi, sono punti di domanda senza frase, i pazzi di Celestini sembrano, al contrario, una fucina inesausta di frasi e logorree, filosofemi sconnessi e parole a volontà, in un tripudio di battute talvolta esilaranti ("Mia nonna è nata vecchia, è morta vecchia, e in mezzo è stata vecchia tutta la vita"), ma per la gran parte stiracchiate e prive di una demezialità davvero incisiva. I continui riferimenti scatologici, alla lunga pedanti, colmano (?) le molte lacune del copione, che ad esempio, nell'accostare una problematica toccante come la sessualità e il desiderio di amore carnale nel malato di mente, si limita a lastricare la strada di Nicola e dell'amico inseparabile (un ottimo Giorgio Tirabassi) di volgarità cialtrone da caserma. Quanto di meglio ha realizzato Giulio Manfredonia, insieme allo sceneggiatore Fabio Bonifacci, nel meraviglioso "Si può fare", dove il povero Gigio, un matto, ma, in fondo, un ragazzo con le pulsioni dei suoi anni, matura una tenera, poetica e disperata passione, narrataci da sguardi languidi e arrossamenti, per una ragazza "normale", scoprendo così il richiamo del sesso e la drammaticità dell'amore.
Lacune da colmare. Molte. Anche al prezzo del ricorso a cadute di stile, o veri e propri sfondoni, come la scena dell'abbuffata con rigurgito finale al supermercato, la quale, se intendeva essere una sorta di allegoria della bulimica società consumista, retta da stolti bisogni indotti e sorda al dolore, è riuscita maluccio. O al prezzo dell'innesto di una tragedia ingiustificata e gratuita come l'amichetto morto infilzato nel cancello, che non si sa proprio come interpretare, se non considerandola una concessione al pubblico che, in un film simile, si aspetta anche un episodio luttuoso e lacrimevole.
L'indiscussa bravura del cast, in cui spicca una Luisa De Santis formidabile nel dono che compie, al personaggio della suora, di tutta la sua carica istrionica e popolare, non è sufficiente a sollevare dalla mediocrità un film sulla follia nel quale, della follia, manca proprio un "pensiero". E quel misterioso territorio dell'anima che Pirandello aveva dichiarato zona franca dalle costrizioni e dalle meschinità del mondo gretto e ipocrita, si risolve, in Celestini, in una congerie di numeri cabarettistici. In cui la pecora non è nera né bianca, ma permane in un grigio indefinito.
01/10/2010