“La maschera del demonio” è un debutto registico che marchia a fuoco e sangue il genere horror; ne deturpa (così, modellandoli) i connotati, mostrandone a pieno vigore e fulgore (e sensualità); spiana la strada a un nuovo percorso da seguire, fa luce all’interno di anfratti e luoghi tutti da scoprire ed esplorare. E lo fa attraverso un’unica e straordinaria (oggi magistrale) sequenza, ossia quella iniziale che precede i titoli di testa, facendo da prologo alla vicenda: l’imprinting è forte e immediato, nonché crudo e violento, ma al contempo conturbante (in una fusione di tocchi sadici e lievi pulsioni erotiche) e permeato da una macabra atmosfera estremamente affascinante, incastonata in un elegante bianco e nero.
Se questa opera prima di Mario Bava nasce sulla scia (con l’intento di seguirla) del successo commerciale dei primi horror della Hammer di fine anni 50 (“Dracula il vampiro”, “The Curse Of Frankenstein” e “La mummia”), il film offre, invece, qualcosa di diverso, andando a conficcare nel volto dello spettatore gli aculei di una maschera viva e feroce. Siamo nel 1960 e l’impatto è brutale per colui che guarda: subisce lo stesso trattamento riservato alla protagonista.
Naturalmente, la pellicola in questione non basa la propria forza sull’intento di voler scioccare il pubblico e la sua bellezza risiede in una narrazione tanto fluida ed essenziale quanto ricercata e potente. Le inquadrature denotano un’efficacia pittorica assolutamente riuscita e i movimenti della mdp sono scorrevoli e precisi ad assecondare ed enfatizzare nel migliore dei modi i diversi momenti della storia (il piano sequenza avvolgente ed esplorativo all’interno della cripta e quello che ci presenta la famiglia della principessa per la prima volta riunita in una sala del castello possono risultare emblematici in tal senso). Gli effetti ottici e i trucchi evidenziano, invece, interamente il valore del genio artistico-artigianale dell’autore: basti pensare all’affiorare dell’immagine di Javutich sulla superficie del quadro che raffigura Asa e al corpo del padre di Katia che brucia tra le fiamme dell’ampio camino, così come al rigenerarsi degli occhi della strega e all’esplosione della lapide, oltre all’invecchiamento/ringiovanimento di Katia/Asa.
Anche se la storia è immersa in una classica ambientazione gotica e lo sviluppo della trama non offre spunti particolari, in realtà le sorprese non mancano, poiché sono stile e messinscena a conferire autorità e dignità uniche al tutto. La prima apparizione della principessa Katia, che richiama l’immagine del quadro di Asa che vedremo di lì a poco, è avvolta da un’atmosfera surreale al tempo stesso inquietante e seducente ed è proprio il gioco del doppio a costituire un elemento d’attrazione fondamentale: Barbara Steele incarna (letteralmente – oltre all’interpretazione di due personaggi avviene una vera e propria mutazione fisica e una sorta di assorbimento dei due corpi) sia il bene che il male, sia la vittima che il carnefice e l’amalgama delle parti definisce un’ambigua suggestione che lascia emergere addirittura sensazioni necrofile (ma non manca l’ironia – che è, anzi, un valore aggiunto: infatti il dottor Kruvajan invita una bimba a non aver paura dei morti perché non possono farle nulla di male, dopodiché diventa uno schiavo di Asa, ammaliato dal cadavere della strega stessa).
È inoltre da sottolineare la componente simbiotica dei personaggi, e in particolare quello della principessa Katia, ovviamente, con il castello in cui vivono (oltre la succitata, altrettanto simbiotica, relazione vita-morte tra Katia e Asa), perché la dimora in questione è avvolta da una fumosa e fatale aura di mistero con un orribile segreto proveniente dal passato che si cela dietro i quadri e il camino: alle loro spalle è in agguato un riflesso malvagio pronto a colpire.
“La maschera del demonio” non è da considerarsi obbligatoriamente il miglior prodotto di Mario Bava in assoluto ma, se consideriamo l’ottimo successo ottenuto negli Usa e Francia (Barbara Steele diventerà una vera e propria icona del filone gothic/horror di quegli anni: nel 1961 la ritroviamo subito ne “Il pozzo e il pendolo” di Roger Corman) e l’ormai acquisito status di grande classico (citiamo almeno l’omaggio reso da Tim Burton nel suo “Il mistero di Sleepy Hollow” del 1999 giusto per), si rende semplicemente evidente l’incommensurabile valore di un autore (con “La ragazza che sapeva troppo” e “Sei donne per l’assassino” getta le basi per la nascita del cosiddetto “thriller all’italiana” dei primi anni 70, benché il fenomeno esploderà solo grazie al successo commerciale e allo stile impresso dai primi film di Dario Argento, mentre “Reazione a catena” è precursore di tanto slasher a venire) dedito al proprio lavoro e alla propria casa (non cederà alle lusinghe hollywoodiane) con spirito umile e giocoso (purtroppo il suo nome sarà riscoperto in patria solo anni dopo la morte avvenuta nel 1980), senza mai prendersi troppo sul serio, tanto che, quando gli viene posta una domanda verso la fine della sua carriera sul perché i suoi film fossero apprezzati più da americani e francesi che dagli italiani stessi, risponde: “Perché sono più fessi di noi!”*.
*Estratto da un’intervista a cura di Giuseppe Lippi e Lorenzo Cordelli del maggio 1976, contenuta nell’edizione speciale in DVD del film prodotta dalla RHV nel 2004.
cast:
Barbara Steele, John Richardson, Ivo Garrani, Andrea Checchi, Arturo Dominici, Clara Bindi, Enrico Olivieri
regia:
Mario Bava
durata:
87'
produzione:
Massimo de Rita per Galatea e Jolly Film
sceneggiatura:
Ennio De Concini, Mario Serandrei
fotografia:
Mario Bava
scenografie:
Giorgio Giovannini
montaggio:
Mario Serandrei
costumi:
Tina Loriedo Grani
musiche:
Les Baxter, Roberto Nicolosi