Sono trascorsi tanti tanti decenni dal risoluto ribaltamento di prospettiva che lo sguardo esterno ha imparato a poggiare sui connotati della provincia americana. Appurata da anni e anni una provincia americana che è ormai abitudine (fin troppo marcata?) non riconoscere più come la tranquilla oasi di pace predominante, in un immaginario collettivo che è riuscito a travalicare anche le soglie del XX secolo; delle pulsioni violente, ribollenti di furore aggressivo, restano le briciole.
Ne "La fuga di Martha" la descrizione di un microcosmo - che però, associato a una quantità sproposità di altre medio-piccole porzioni, si fa immaginario macro - sembra provenire dritto da una descrizione di violenza quasi apocalittica di una veemente rappresentazione del discorso. Restano le macerie: poco, pochissimo spazio lasciato all'atto dedito alla distruzione dell'oggetto stesso, resta il post, traumatico e insanabile.
La causa del male c'è ma è come se non ci fosse, ed è qui riconducibile la prima dubbia scelta dell'esordiente Sean Durkin, ovvero: quella di farci vedere causa ed effetto come fossero due elementi indistinguibili.
La causa (in ripetitivi flashback) è la fanatica setta che ha psicologicamente distrutto e consumato la protagonista Martha. Ciò che ci è dato vedere risiede in atti sessuali privi di qualsiasi piacere (abusi, ma praticamente consenzienti), strimpellate di chitarra, lavori fai-da-te, addestramento alle armi. Ognuna di queste attività è mostrata per un paio di volte. E si fa fatica a capire quale attrattiva possa spingere la protagonista a restare tanto tempo nella comune: il carismatico (?) leader Patrick? Una ribellione senza causa?
Durkin adopera in più occasioni dei campi lunghi che, tramite lentissimi zoom, stringono l'immagine senza però mai avvicinarsi abbastanza alla protagonista. Come un tentativo di abbraccio costretto dai fatti a fermarsi perennemente prima di donare calore a una ragazza che sarà sempre segnata dai graffi dell'anima.
L'effetto è la desolatezza spoglia e priva di ogni appeal dalla casa che la ospita, abitata dalla sorella maggiore Lucy e dal cognato Ted. In un thriller psicologico - o, a scelta, thriller dell'anima - che vorrebbe certamente rifarsi ad alcune opere di Ingmar Bergman (da "Persona" a "L'immagine allo specchio"), ma che non possiede passione nè strazio. La psicologia per essere sondata non si accontenta di essere accarezzata: bisognerebbe scuoterla, sentirla pulsare, viverla.
Quella di non dare risposte è una scelta audace e assolutamente rispettabile; ma se a latitare sono anche le domande e quegli interrogativi necessari per andare al di là di ciò che stiamo vedendo, la delusione è una conseguenza quasi inevitabile.
Non basta una confezione impeccabile e delle interpretazioni di tutto rispetto (se Elizabeth Olsen è una scoperta, John Hawkes è o almeno dovrebbe essere una conferma).
Il film attende per tutta la sua durata un cambio di passo che non avviene mai: l'eterna attesa è affascinante, ma resta in zone ombrose che non riusciamo a cogliere. Scegliere la strada del non detto non dovrebbe equivalere alla realizzazione di un film che dice poco.
cast:
Elizabeth Olsen, John Hawkes, Sarah Paulson, Hugh Dancy, Brady Corbet, Christopher Abbott
regia:
T. Sean Durkin
titolo originale:
Martha Marcy May Marlene
distribuzione:
20th Century Fox
durata:
102'
produzione:
BorderLine Films, This Is That Productions
sceneggiatura:
T. Sean Durkin
fotografia:
Jody Lee Lipes
scenografie:
Chad Keith
montaggio:
Zachary Stuart-Pontier
costumi:
David Tabbert
musiche:
Daniel Bensi, Saunder Jurriaans