Un militante della Val di Susa dice alla telecamera "Non starò mai dalla parte sbagliata". Sembra che stia parafrasando una poesia di Bertolt Brecht. In un’altra scena una donna dichiara: "Abbiamo già vinto, per unità ed esperienza, tra dieci anni ci daranno ragione anche se sarà troppo tardi".
La realtà è una narrazione, sempre, nella rappresentazione o ricostruzione filmica come in quella mediatica. È un termine abusato, la narrazione, impunemente usato dalla politica, a partire forse dall’involuzione comunicativa di Matteo Renzi. Dovrebbe tornare appannaggio della narrativa, tornare nel suo ventre semantico, e il suo uso andrebbe precluso ai politici e agli addetti al marketing.
Il tav, il treno ad alta velocità Torino-Lione, è un racconto iniziato alla fine degli anni novanta, sebbene il cantiere sia stato aperto solo nel 2011. Se questo progetto debba essere realizzato o meno è una questione di narrazione. E come ogni narrazione, anche il tav risulta credibile fin tanto che le voci favorevoli restano unisonanti, fin tanto che quelle contrarie – decine di migliaia – restano escluse dal copione. "La scelta", come altre opere prima, restituisce agli abitanti della valle il diritto a esprimersi, dopo che ordinanze e interventi legislativi li hanno esclusi dai processi decisionali.
Per buona parte dell’informazione, e forse dell’opinione pubblica, i valsusini sono no tav, e il termine è ambiguo: per i contestatori questa sigla è un fattore identitario, ma per i media principali è l’etichetta per appiattire e banalizzare trent’anni di resistenza. "La scelta" risolve il problema linguistico e racconta i cittadini della valle nella loro vita quotidiana, nel candore politico e, talvolta, nella stanchezza. Un argomento del documentario è la comunità stessa, che Tomaso Montanari nel saggio corale "Perché No Tav" (PaperFIRST, 2019) ha definito una palestra di vita civile esemplare, come poche in Italia.
"La scelta" è ideologico, come ideologici sono i giornali, i telegiornali, i partiti; persino l’indifferenza è una ideologia, e la neutralità non esiste. È una scelta di campo, quella del regista, porsi al di qua della macchina da presa. Per dieci anni Carlo Bachschmidt, compagno della valle, ne ha ripreso la vita e ascoltato ragioni e sentimenti. I volti del documentario sono una figlia che accudisce la propria madre di novantacinque anni, gli addetti alla mensa, gli operatori della redazione radiofonica, i militanti a volto coperto che tagliano il recinto del cantiere con le cesoie, i compagni a processo e Davide Grasso che ha combattuto a fianco dei curdi nel Rojava.
Ma rispetto a questi personaggi quale sarà lo sguardo di un poliziotto, di un capocantiere o di un dirigente ferroviario, a patto che vedano il documentario in sala? E quale sarà lo sguardo di uno spettatore comune?
Come nel precedente "Black Block" (2011), sui fatti della scuola Diaz durante il G8 del 2001, per Bachschmidt, già responsabile della segreteria del forum sociale di Genova, il fatto di cronaca è assodato. Al regista non interessava ricostruire l’intera vicenda, piuttosto custodire le testimonianze delle vittime delle mostruosità compiute dalle forze dell’ordine (o piuttosto forze del caos); in termini di metodo, accade qualcosa di simile nell’opera recente, ma le interviste agli attivisti sono frammentate e brevi, a metà tra la confessione e l’impressione.
"La scelta" per questo non è divulgativo. Sembra piuttosto un documento interno, a uso dei militanti. E per questo non comunica a tutti gli altri, a chiunque sappia poco o nulla della Val di Susa. Resta il contrasto tra i boschi e il cantiere, una crepa orrenda nel paesaggio naturale, e tra la quiete della comunità e il trottare in lontananza dell’escavatore. Ma il film è soprattutto grezzo, nella forma e nello sviluppo narrativo; scarno di contenuto e pieno di silenzi, privo di coordinate, con certe sfumature spettrali. Dice poco al pubblico nazionale, che continua a ignorare i fatti, i dati e l’intera impalcatura propagandistica della Torino-Lione. Che non serve, anzi è dannosa, ingiusta e insostenibile sul piano finanziario, ambientale e dei diritti civili, alla luce di motivazioni che, se non pertengono al documentario, non pertengono alla recensione.
Al netto del giudizio estetico, sulla forma e sulla destinazione dell’opera, "La scelta" conserva il merito di raccontare le anime valsusine, le quali sembrano abitanti di una riserva, sempre lontani dai riflettori e improvvisamente prossimi allo spettatore. Non a caso un magistrato utilizzò il termine indiani per descrivere le 80 mila persone che scendevano dalla valle per protestare contro la tav, non a caso "Gli indiani di valle" (2005) è il sottotitolo di un documentario di Adonella Marella sullo stesso tema. Al pari degli indiani, i protagonisti del film sono custodi di un’idea di comunità, autentica, che appartiene a tutti ma che ricordano in pochi. Persino l’Espresso, e non un giornale antagonista, riportava nel 2013, a firma di Tommaso Cerno, che i "no tav" sono "un intero popolo".
cast:
Luca Abbà, Paolo Perotto, Emanuela Favale, Gabriella Tittonel, Alberto Perino, Marisa Meyer, Dana Lauriola, Silvano Giai, Nicoletta Dosio, Davide Grasso
regia:
Carlo A. Bachschmidt
titolo originale:
La scelta
durata:
83'
produzione:
Carlo A. Bachschmidt, Stefano Barabino, Michele Ruvioli, con ZaLab Film
fotografia:
Stefano Barabino
montaggio:
Luca Mandrile
musiche:
Roberta Barabino, Alessandro Paolini