Un autore-artigiano tra la Germania e gli U.S.A.
Scrivere di Robert Siodmak vuole dire raccontare un regista capace di passare, come pochi, il sottile confine che separa l'autore dall'artigiano, l'opera memorabile dal semplice lavoro su commissione. Tale duttilità conferma una piena consapevolezza delle potenzialità del mezzo filmico. Ciò permette a Siodmak di attraversare tutti i più importanti passaggi della storia del cinema: dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore. Senza mai soccombere alla novità, ma rinnovando il proprio percorso professionale.
Dopo il folgorante esordio semi documentaristico di "Uomini di domenica" del 1930, il regista tedesco è capace di spiazzare tutti con "Partenza", in cui accoglie l'avvento del sonoro con entusiasmo, intuendone le enormi potenzialità: schermo nero, all'inizio, con un'esplosione e persone che si chiedono che cosa è successo: il muto, lasciato dietro l'angolo, è già distante anni luce. Nato a Dresda l' 8 agosto 1900, Siodmak si distingue per aver svolto i più svariati mestieri, prima di approdare alla settima arte: bancario di successo poi caduto in disgrazia, venditore ambulante prima di sigarette e poi di biancheria, giornalista e scrittore di racconti d'appendice. Tali esperienze gli permettono di conoscere le situazioni più disparate, poi evocatrici di molte atmosfere delle pellicole a venire. E tale capacità di adattamento sarà elemento imprescindibile di quella versatilità nel passare da un genere ad un altro e di raccontare film modulati su più registri.
In Germania dirige i primi film in cui manifesta una buona vena drammatica, di cui si serve per approfondire l'analisi psicologica e sociale, costante poi di molto suo cinema. Come si diceva, la sua versatilità sta nella presenza di più registri, come quello del comico. Dote, quest'ultima, maturata durante il periodo in Francia: "Le Sexe Faible " ("Il sesso debole" del 1933) è una commedia moderna dove il regista tedesco sperimenta, per la prima volta, la sua vena più comica. La propaganda antisemita del partito nazista anche nell'industria dello spettacolo e del cinema porta, nell'aprile del 1933, ad una fuga di vari talenti come Max Ophuls, Billy Wilder e pure Robert Siodmak, il quale scappa prima in Francia. La fuga a Parigi però non basta. Il dilagare in Europa del nazismo obbliga il Nostro a partire per Hollywood, dove incomincia a lavorare alle dipendenze delle majors realizzando b-movies. Sarà con la firma di un importante contratto con la Universal che la sua carriera avrà una svolta, portandolo a realizzare quelle opere che lo renderanno memorabile. "La donna fantasma" (1944), "I gangsters" (1946), "Lo specchio scuro" (1946): sono alcuni dei titoli più importanti del periodo. Sono thriller appassionanti e popolati da personaggi complessi e mai limpidi. In "Lo specchio scuro" Siodmak reinterpreta il tema del doppio, con Olivia de Havilland nel ruolo delle due gemelle. L'ironia del tenente interpretato da Thomas Mitchell è una firma sempre più riconoscibile. Tra tutti, però, spicca "La scala a chiocciola" (1946) che raccoglie tutte le esperienze del regista; qui vi troviamo l'espressionismo tedesco, l'umorismo, le componenti psicoanalitiche, suggestione letterarie e pittoriche
L'uomo nero e la sua vittima
Primi del Novecento. La quiete di una cittadina del New England viene turbata da una serie di delitti che hanno come vittime giovani donne affette da menomazioni. La pellicola si apre con una carrellata che ha la precisa funzione di introdurre lo spettatore alla quiete e tranquillità della comunità: le carrozze, la gente a passeggio in una bella giornata di sole e una colonna sonora di archi sono elementi che rappresentano un luogo senza ombre. Tale scena è volutamente enfatica e didascalica, perché al regista non interessa raccontare la vita nella città prima della comparsa dell'assassino e il crescere del terrore. Siodmak preferisce invece calare lo spettatore in medias res: si vive con la tensione di un serial killer che può tornare in azione in qualsiasi momento.
Le fonti che ispirano il profilo del serial killer sono molteplici: si possono cogliere suggestioni da Edgar Allan Poe, nonché da molti romanzieri gotici, in primis Henry James (in alcuni particolari della casa della famiglia Warren), e dall'espressionismo tedesco, il tutto immerso e attualizzato nel periodo nazista. Non bisogna dimenticare che il film viene girato appena un anno dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e Siodmak ha subìto personalmente l'infamia delle persecuzioni. Difatti il modus operandi dell'assassino è quello di un nazista, che senza alcuna logica umana si muove nell'ombra per "purificare" la razza da ogni difformità. L'elemento però di maggior inquietudine è nel momento dello svelamento dell'identità dell'assassino: lo spettatore non si trova di fronte un disadattato o reietto della società ma un uomo con un ruolo sociale rispettato e riconosciuto.
Il germe del razzismo è dentro la nostra comunità, dentro le nostre case, sembra ricordarci il film. Per raccontare questo cambio d'identità Siodmak trova un'immagine iconica e paradigmatica nel primissimo piano dell'occhio dell'assassino che trascende la normalità per diventare sguardo allucinato e vorace mietitore di vittime. L'occhio muta in uno specchio su cui si riflette la vittima, ignara dell'imminente epilogo. Questo espediente tecnico evidenzia la padronanza del mezzo filmico. Le deformazioni e distorsioni ottiche di alcune immagini confermano la volontà di rifarsi alla lezione dell'espressionismo tedesco, una tra tutte: il primo piano di Helen (Dorothy McGuire) con la bocca cancellata è la proiezione dell'assassino che la vuole muta e innocua.
La giovane lavora come dama di compagnia dell'anziana e malata Lady Warren. La incontriamo però alla proiezione di un film muto poco prima di un altro delitto ad opera del serial killer. L'attenzione allo spazio scenico nel cinema di Siodmak non è mai banale e lasciata al caso. Il luogo in cui è introdotto il personaggio serve ad evidenziare la metafora con il cinema: Helen è muta come il film che sta guardando ed è in pericolo come il cinema muto ormai assediato dall'avvento del sonoro (la pellicola aggiunge infatti il mutismo della protagonista, assente nell'omonimo libro di Ethel Lina White). E l'unico modo per sopravvivere è rompere il silenzio, invocando aiuto. A costo di rimuovere traumi infantili di ordine psicologico (componente, questa, come detto, presente nelle più importanti opere di Siodmak).
Nel finale Helen sconfigge le proprie fobie scendendo dalla scala a chiocciola, che diventa esplorazione del subconscio, una sorta di portale verso un altro mondo in cui i personaggi catalizzano le proprie paure, nascoste nella vita quotidiana. L'uomo nero è ai piedi delle scale nel delirio eugenetico nazista.
La storia è raccontata con sorprendente linearità, rispettando le tradizionali unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. Dopo le prime scene introduttive, il luogo di ambientazione diventa casa Warren, in cui la nostra protagonista lavora e ha l'unico vero legame della sua esistenza. Questa dimora, severa e gotica, che lo spettatore vede la prima volta sotto un diluvio torrenziale, è un vero e proprio microcosmo, i cui abitanti vivono con ruoli e spazi ben precisi. Tale casa assume le fattezze di un personaggio silenzioso, forse un diabolico burattinaio. La suddivisione in tre piani (cantina, piano terra e primo piano) influenza l'agire dei personaggi e diventa rappresentazione di componenti psicoanalitiche essenziali per il funzionamento della trama. Al piano terra domina la componente razionale; tutti gli accadimenti più inquietanti vengono riportati a spiegazioni di buon senso e razionali. I domestici stemperano la tensione con ironie e ridimensionando ogni dubbio sollevato da Helen. La cantina, invece, è, come già anticipato, l'inconscio: ciò che viene rimoso dalla ragione. È il luogo degli istinti più bassi ed è avvolto sempre nell'ombra. Il primo piano è il regno della coscienza morale, il Super Io della dimora. Lady Warren (Ethel Barrymore, nominata all'oscar per il ruolo) è l'unica a non cedere alle spire della scala e a non farsi ingoiare dalle paure. È il personaggio che rimette a posto ogni cosa e domina dall'alto ogni evento che accade.
Il film non ebbe riconoscimenti particolari, nonostante il successo di critica e pubblico. Siodmak ottenne, anni dopo, l'unico premio con "I topi", per cui vinse il Festival di Berlino e venne nominato come miglior film agli Oscar. I film, però, che lo renderanno immortale rimangono quelli del periodo americano, quelli dai profili più sfumati e dai personaggi più tormentati, quelli dove le ombre prevalgono sulla luce.
cast:
Dororthy McGuire, George Brent, Ethel Barrymore
regia:
Robert Siodmak
titolo originale:
The Spiral Staircase
distribuzione:
RKO
durata:
83'
produzione:
RKO Radio Pictures
sceneggiatura:
Mel Dinelli
fotografia:
Nicholas Musuraca
scenografie:
Albert s. D'Agostino, Jack Okey, Darrell Silvera
montaggio:
Harry W. Gersatd, Harry Marker
costumi:
Edward Sevenson
musiche:
Roy Webb