Chi evita la compagnia di tutti gli altri morti è scomparso davvero.
Senza le lettere che tornano a ripetere un nome,
l’assenza si trasforma in una fortezza imprendibile,
dove chi è vivo non ha niente da andare a cercare.
Cees Nooteboom, "Tumbas"
Terminata la Seconda Guerra Mondiale, a Leningrado (oggi San Pietroburgo) i sopravvissuti
cercano un modo per ricostruire una vita e delle relazioni umane dopo l’estenuante assedio nazista. Due i personaggi principali, due donne che si fanno carico, metaforicamente, di una sofferenza sfibrante: Lya e Masha.
Lya è altissima, tutti la chiamano giraffa (dylda, beanpole, spilungona), è un po' impacciata e benvoluta; soffre di un forte disturbo da stress post-traumatico: ogni tanto si blocca, occhi spalancati, e non reagisce agli stimoli che la circondano.
Masha, sua amica e compagna di battaglia, è rientrata più tardi dai combattimenti e dopo la morte del marito e del suo unico figlio vuole dare un senso alla propria vita cercando di avere un altro bambino.
Le due protagoniste (Viktoria Miroshnichenko e Vasilisa Perelygina, due attrici all'esordio e premiate al Torino Film Festival per la miglior interpretazione) si ritrovano a lavorare insieme come infermiere in un ospedale, e a condividere una camera e il letto. A condividere il lutto e la speranza, o meno, di essere incinte, in un rapporto simbiotico che le tiene legate in maniera indissolubile.
Non per nulla all'interno del film i due personaggi quasi si scambiano la posizione principale attraverso uno schema a chiasmo: è Lya la protagonista principale (unica) della prima parte mentre l'amica è prima solo evocata dal figlio e poi man mano prende corpo. Nella parte centrale le due sono unite e in pari ruolo, per poi lasciare nella seconda parte il "palcoscenico" a Masha.
Parlo di palcoscenico non a caso, perché il film ha una sua teatralità nelle ambientazioni, per lo più spazi chiusi (l'ospedale, la camera da letto etc.) che restituiscono stati d'animo e ansie. Ma allo stesso tempo rispondono cromaticamente alle intenzioni formali del regista. Ed è proprio questo l'aspetto preponderante dell'opera, quello che rimane più evidente in superficie. Ma pure quello più delicato e passibile di critiche, anche feroci. Infatti, è senza dubbio una evidenza incontrovertibile, soprattutto dopo la prima parte, l'insistenza del regista nel cercare quel colore, il verde brillante nello specifico, che torna e ritorna in varie forme e materiali (il muro, il maglione, la lampada e così via) può risultare a tratti un gioco formale (banalmente vien da chiedersi, cosa sarà verde nella prossima inquadratura?).
Va detto che Kantemir Balagov è giovane, e nonostante sia sempre indicato come allievo di Aleksandr Sokurov, ancora deve lavorare per essere accostato a cotanto maestro. Ancora appare leggermente squilibrato nel suo lavoro, ma il percorso di ricerca è già entusiasmante.
Su tutto probabilmente va sottolineato lo smarcamento totale dai generi: questo è un film abbastanza ineffabile, di cui rimane più di tutto il senso di smarrimento e di dolore costante. La ricerca di una posizione nel mondo da parte delle due protagoniste come anche dei comprimari: il medico, che finita la guerra è di passaggio. Il ragazzo innamorato di Masha, che vorrebbe cambiare vita ma non può sfuggire dalla propria posizione sociale, i malati in ospedale mutilati, immobilizzati, tutti in attesa di una nuova vita o di una morte che, unica, può liberare lo spirito.
E infatti pervade in tutta la durata del film un senso ferale e spietato, riconducibile al contesto storico di riferimento (un periodo di assoluta difficoltà e indigenza) e, perché no, a una contemporaneità che troppo spesso viene definita fluida.
La necessità di trasmettere i propri geni e la propria sofferenza a un bambino innocente è uno dei temi del film, l'inseguire il proseguimento della specie per trovare un senso di sé. E infatti appare crudele e cinica, e forse lo è, la scena della morte del bambino. Tanto spietata che viene da pensare che Balagov forse ancora debba trovare una dimensione veramente alta per raccontare una storia per immagini e non involversi in un entomologo con la macchina da presa. Una sensazione che già sembrava irrompere nella visione del precedente "Tesnota". Ma, di sicuro, il suo è uno dei nomi del futuro del cinema che più amiamo. Un cinema che racconta la vita di morti, di fantasmi e di desideri umani fortissimi e spietati attraverso immagini e tempi necessari. Lentamente, senza speranza.
cast:
Viktoria Miroshnichenko, Vasilisa Perelygina, Andrey Bykov
regia:
Kantemir Balagov
titolo originale:
Dylda
distribuzione:
Movies Inspired
durata:
130'
produzione:
Non-Stop Productions
sceneggiatura:
Kantemir Balagov, Aleksandr Terekhov
fotografia:
Ksenija Sereda
scenografie:
Sergej Ivanov
montaggio:
Igor' Litoninskij
costumi:
Ol'ga Smirnova
musiche:
Evgueni Galperine
Terminata la Seconda Guerra Mondiale, a Leningrado (oggi San Pietroburgo) i sopravvissuti cercano un modo per costruire una vita e delle relazioni umane dopo l'estenuante assedio nazista. Due i personaggi principali, due donne che si fanno carico, metaforicamente, di una sofferenza sfibrante: Lya e Masha.