È con l’adattamento di un romanzo di Penelope Fitzgerald ("The Bookshop") che l’esperta e prolifica Isabel Coixet, regista catalana, trionfa ai Premios Goya – equivalente iberico degli Academy Awards. Il successo de "La casa dei libri" (originale "La libreria"), eletto miglior film spagnolo del 2018, viene confermato e amplificato dai premi Forqué, Sant Jordi e le medaglie del CEC (Circulo Escritores Cinematograficos).
La vicenda, ambientata nel 1959, gravita intorno alle fatiche di Florence Green (Emily Mortimer), giovane vedova che decide di aprire una libreria nel piccolo villaggio di Hardborough, Suffolk. La sede designata è uno dei pochi edifici di valore storico dell’abitato, la fantomatica Old House (cui allude il curioso titolo italiano). Purtroppo, la medesima stamberga è l’oggetto del desiderio della potente Violet Gamart (Patricia Clarkson), che vorrebbe farne un "centro per le arti". Gettato il soldo, tutti si azzuffano per raccoglierlo: e nella contesa vengono trascinati, loro malgrado, il facoltoso Mr. Brundish, il losco maneggione Milo North, la giovane aiutante Christine e una ridda di ulteriori personaggi. Come avvisa la voce narrante, offrendoci un indizio dell’ineluttabile sviluppo, il mondo si divide essenzialmente in due categorie: chi stermina e chi soccombe.
Alla linearità dell’intreccio si affianca una regia coerente: inquadrature terse, tendenzialmente statiche, simili a cornici centrate su sfarzosi interni o incantevoli paesaggi in cui si sviluppano puntuali dialettiche di campi e controcampi. Proprio nella conturbante fotografia di Jean-Claude Larrieu, costruita su un raffinato gioco di toni bruni, grigi e azzurri, risiede forse il maggior punto di forza del film. In quest’idea di regia classicheggiante, linda e simmetrica, spiccano con forza i volti e i gesti degli attori, che purtroppo non riescono ad infondere vita nei personaggi stereotipati disegnati dalla sceneggiatura, più simili a maschere che a individui reali: nell’immaginario villaggio di Hardborough (nomen omen), una linea netta divide buoni e cattivi, aiutanti e oppositori. I personaggi aderiscono insomma a funzioni palesate sin dalla prima sequenza, ribadite dalla voce narrante, cristallizzate in un manicheismo morale tanto nitido quanto implausibile. "La casa dei libri" vorrebbe forse essere la cronaca drammatica di un intimo eroismo, oppure una critica storica del filisteismo (o entrambe), ma in questa crisi d’identità filmica finisce per assomigliare paurosamente a un'elegia che vibra sulle note di un patetismo stucchevole. L’impressione è accentuata da alcune scene (malinconici dialoghi seguiti da malinconici abbracci sulla malinconica spiaggia) e dalla colonna sonora, eccessiva nella misura e inopportuna nelle scelte formali (ad esempio, il pianto accorato dei violini che duplica quello della protagonista).
Per contro, le intenzioni erano buone: "La casa dei libri" è un garbato omaggio alla letteratura e agli amanti dei libri. Coixet insiste soprattutto sulla lettura come pratica di emancipazione dalle convenzioni sociali, mettendo in risalto capolavori come "Fahrenheit 451" e "Lolita". Tuttavia, al film manca la carica eversiva che sembra invocare, e annega in un pantano di cliché audiovisivi e topoi narrativi che lo rendono prevedibile, impersonale, e in ultima analisi carente.
26/09/2018