Scrive Alberto Pezzotta nella sua introduzione al volume "Associazioni imprevedibili: il cinema di Walerian Borowczyk": "bastarono cinque anni all'autore di ‘Goto' per diventare il più celebre regista erotico europeo (‘I racconti immorali', ‘La bestia', ‘Il margine'...), e altri cinque per perdere visibilità e interesse agli occhi della maggior parte della critica, relegato nel ghetto di un cinema per uomini soli. E da qui è nata una sottovalutazione, in cui contano tanto l'ignoranza quanto il pregiudizio".[1]
È in quest'arco di tempo risicatissimo che si gioca l'intera carriera e la reputazione di Walerian Borowczyk, autore eccentrico e poliedrico, genuinamente anticonformista, il cui nome è stato erroneamente e troppo a lungo associato all'epiteto di pornografo. E questo fraintendimento è legato in particolare a "La bestia" ("La Bête", 1975), succès de scandale che segna, allo stesso tempo, l'apice della carriera e il canto del cigno del cineasta polacco. Con l'uscita di questa pellicola, infatti, Borowczyk si trova costretto a fronteggiare una sempre più veemente condanna moralistica e censoria da parte di quell'establishment critico, che pure lo aveva glorificato nei decenni precedenti quale Maestro visionario del cinema d'animazione.
Dopo "La bestia", tutti i film di Borowczyk hanno dovuto scontrarsi con le rigidità di un mercato incapace di catalogare opere così provocatoriamente in bilico tra film d'arte e pornografia e, allo stesso tempo, con gli interventi compromissori di produttori e distributori ingordi, risoluti nel volerne sfruttare il potenziale "a luci rosse". Di qui una spirale vorticosa di battaglie legali, sequestri della censura, polemiche giornalistiche, diffidenze dei critici, recriminazioni delle femministe, ostilità dei festival internazionali. Fino all'addio definitivo al mondo del cinema, dopo la regia, degradante e spersonalizzante, di "Emmanuelle 5" (1987), sempre caparbiamente disconosciuto dall'autore eppure accettato suo malgrado per sostenere i costi del suo rifugio eremitico fuori Parigi.
Autore maudit
La carriera di Walerian Borowczyk (Kwilcz, 2 settembre 1923 - Parigi, 3 febbraio 2006) parte da assai più lontano, quando nel 1949 si iscrive all'Accademia di Belle Arti di Cracovia e, insieme all'amico Jan Lenica, intraprende un fortunato sodalizio artistico che lo avvicina sempre di più al mondo del cinema sperimentale. Sensibili agli influssi della lezione surrealista, insieme realizzano cortometraggi che, alternando con originalità riprese documentarie e disegni animati, immagini astratte e attori in carne e ossa, stop motion e pixilation, diventano presto un punto di riferimento fondamentale nel panorama del cinema avanguardistico dell'epoca. Ottiene particolare attenzione "La casa" (1958), che si aggiudica il Grand Prix al Festival del Cinema Sperimentale di Bruxelles e viene nominato ai Bafta Awards. Subito dopo Borowczyk si trasferisce a Parigi, dove continua la sua opera di sperimentazione sotto l'ala del produttore Anatole Dauman, fautore dei primi successi di Alain Resnais e più avanti di Bresson, Wenders,
Godard e Oshima.
Di questo periodo sono le sue opere più importanti nel campo dell'animazione, tra le quali vale la pena citare almeno "Gli astronauti" (1959), diretto in coppia con Chris Marker, "Le concert de Monsieur et Madame Kabal" (1962), "Renaissance" (1963) e "Rosalie" (1966), che ottiene riconoscimenti ai Festival di Berlino e Locarno. I consensi entusiastici dell'intellighenzia cinematografica europea assicurano a Borowczyk un'ascesa che gli permette presto di esordire nel lungometraggio: prima ancora di animazione con "Le Théâtre de Monsieur & Madame Kabal" (1967), poi di fiction con "Goto, l'isola dell'amore" (1968) e "Blanche" (1971), in cui dirige la moglie e musa Ligia Branice.
Entrambi i film vengono salutati favorevolmente come una conferma del talento istrionico del cineasta polacco. Eppure, allo stesso tempo, inizia a insinuarsi nell'opera di Borowczyk un elemento inatteso e disturbante che disorienta critici e cinefili: una eco ammiccante e maliziosa, inedita nella sua esplicitezza, intesa a enfatizzare la carnalità del desiderio e l'irruenza della tensione sessuale. Tensione destinata a deflagrare, irrimediabilmente, nelle pellicole successive.
I film di Borowczyk vengono così sempre più identificati per l'inequivocabile sensualismo e la palese predilezione per l'elemento erotico, mentre al suo nome si lega rovinosamente e repentinamente, tra incomprensioni e pregiudizi, l'epiteto (che suona ancora oggi come una condanna) di pornografo. Con "I racconti immorali" (1974) e, soprattutto, "La bestia" ha inizio dunque la battaglia di Borowczyk per salvaguardare l'integrità e l'autenticità del suo lavoro: se da una parte i censori mutilano brutalmente ogni suo film o ne relegano la distribuzione al circuito delle sale a luci rosse, dall'altra produttori e distributori manipolano le sue pellicole inserendo sequenza apocrife hardcore nel tentativo di sfruttare economicamente la sua fama di autore licenzioso e maudit.
L'eros come poetica
In realtà, all'apice del suo fulgore, il cinema di Borowczyk, nel suo spregiudicato anticonformismo, ha dimostrato di possedere la capacità preziosa di spezzare "la falsa dialettica (nulla di più odioso) tra erotismo ‘suggerito', accennato, allusivo ed erotismo volgare, plateale e pignolo".
[2] Grazie alla sensibilità pittorica e all'attitudine di
bricoleur che derivano dalla formazione in Accademia e dall'esperienza di animatore, le messinscena del cineasta polacco riescono sempre a contraddire qualsiasi (cieca) accusa di pornografia, pur non rinnegando mai una carnalità sfrontata e un'audacia a volte brutale nella rappresentazione della nudità e della sessualità.
Inoltre (e soprattutto) Borowczyk, memore delle sperimentazioni surrealiste del primo
Buñuel, carica le sue pellicole di una provocatorietà giocosa e insolente, attribuendo alla rappresentazione della sessualità, in particolare quella femminile, precisi significati politici. Prende così forma un erotismo libertario e lussurioso, che ha la funzione principale di destabilizzare il potere, demistificare la facciata ipocrita dei sistemi sociali, sovvertire l'ordine costituito di matrice borghese e cattolica. Un erotismo che prende forma in un catalogo quanto mai variegato di eroine. Pur non possedendo alcun tratto distintivo tipico della
femme fatale tradizionale, esse si distinguono come ambasciatrici consapevoli del potere sovversivo e liberatorio della sessualità femminile, che crea disordine e caos: "là dove le donne liberano il proprio desiderio, l'intero castello maschile si sgretola, entra in crisi, tracolla".
[3] Con (forse) la sola eccezione del lungometraggio d'esordio, tutti i film di Borowczyk sono una glorificazione della donna e una denuncia della sua condizione sociale. "Ed è dalla denuncia della condizione femminile che il regista condanna tutte le forze d'oppressione attraverso i secoli".
[4]Le sue protagoniste appaiono in prima istanza come vittime della morale, dei tabù, delle costrizioni sociali e della supremazia maschile, ma in ognuna di esse ribolle un fermento di rivalsa che proprio attraverso la scoperta libera e impudica della sessualità può conoscere soddisfazione. Anche quando sono destinate a soccombere, l'erotismo lussurioso delle donne borowczykiane si manifesta come vero motore narrativo, "unico dato vivificante e sacrilego nei confronti dell'ordine costituito".
[5] È il caso, per esempio, della Glossia di "Goto, l'isola dell'amore", che sebbene si avvii a un epilogo tragico, segnerà il destino di tre uomini e dell'intero Stato. Ma più spesso le eroine borowczykiane trionfano su divieti e pregiudizi. In un progressivo ma inesorabile cambio di prospettiva, cui si lega inevitabilmente un capovolgimento di ruoli nella dinamica maschile/femminile, esse sanno sfuggire lo stato di subalternità e vessazione imposto dal maschio dominante, trasgrediscono divieti e tabù, rendendosi allo stesso tempo "oggetto sacrificale e carnefice",
[6] fino a farsi artefici di un nuovo gioco di cui sono le uniche conduttrici. Ne è un esempio la giovane Marceline dell'episodio "Il sangue dell'agnello" del trittico "Tre donne immorali?" (1979), nel quale, attraverso il suo primo congresso carnale, la ragazza acquista consapevolezza del proprio potere (sessuale,
ça va sans dire) spingendo al suicidio il proprio amante e architettando una cruenta vendetta nei confronti dei genitori bigotti e benpensanti - di nuovo, la critica alle istituzioni. Un erotismo critico e disturbante, dunque, mai compiacente.
Succès de scandale
Questa poetica raggiunge la sua piena maturità espressiva proprio ne "La bestia", eccentrico e vituperato capolavoro di Borowczyk. Il film prende spunto dal corto "La véritable historie de la bête de Gévaudan" (1973), presentato in anteprima al London Film Festival del 1973, ispirato all'omonima leggenda francese in cui una damina del Settecento perde parrucca e crinoline per sfinire di piacere (letteralmente) la mostruosa creatura che abita il bosco attorno al suo palazzo. La proiezione sciocca e crea scandalo per la crudezza delle immagini, portando agli onori delle cronache il nome del suo autore. Due anni dopo, ancora al London Film Festival, lo stesso corto viene espanso e integrato in un inedito, ancor più controverso, lungometraggio: "La bestia", appunto.
In un remoto castello della campagna francese, lo spiantato marchese Pierre de L'Esperance spera di salvare titolo e tenuta grazie al matrimonio combinato tra l'introverso figlio Mathurin e l'incantevole ereditiera americana Lucy Broadhurst. Tra tensioni famigliari, segreti inconfessabili, ambigui prelati ed echi mitologici, Borowczyk mette in scena "una nobiltà provinciale che sta decomponendosi e si difende solo con l'ipocrisia; mentre la naturalità dell'istinto fa irruzione, attraverso il ripetersi di una vecchia leggenda, e sconquassa ogni cosa".
[7] Lucy rimane infatti affascinata dalla storia di un'ava della famiglia de L'Esperance, Romilda, che nel XVIII secolo ha affrontato e sconfitto la terribile Bestia che popolava i boschi della regione, uccidendola di piacere. Mentre è sola nella sua stanza e si masturba con un bocciolo di rosa, la ragazza ripercorre in sogno, in prima persona, le gesta di quell'antenata "che con la forza del suo desiderio e l'onnipotenza della sua femminilità uccide la bestia per sfinimento, quando gli attributi del mostro sembravano renderlo invincibile".
[8]Ancora una volta, quindi, una donna e la sua libera espressione sessuale sono al centro del racconto. Meglio, due donne. Da una parte c'è Romilda, che "con la sua partecipazione attiva, aggredisce la potenza del Nemico Seduttore (un Don Giovanni all'ultimo grado di regressione) e la doma".
[9] Dall'altra c'è Lucy, che attraverso il
transfert onirico riesce ad affrancarsi dagli ostacoli (nel film si susseguono una serie di coiti interrotti) e dalle sovrastrutture delle costrizioni socio-culturali, dando libero sfogo alle palpitazioni della carne che l'hanno animata fin dal suo ingresso nel castello, quando con la sua macchina fotografica si ferma a catturare un'istantanea della monta dei cavalli. Questo doppio orgasmo, reale e di sogno, porta ancora una volta al soverchiamento dell'ordine costituito: Mathurin, discendente biologico e reincarnazione della Bestia, muore, il mistero viene svelato, "la maschera borghese cade e l'uomo si svela nella sua animalità, alle prese con le pulsioni primitive della fame e della voracità".
[10] Il ritratto di Romilda cade frantumandosi sul pavimento e a Lucy non resta che scappare, libera, dal castello. Del resto, nel cinema di Borowczyk "è sempre e comunque la donna a vincere".
[11]In questo senso, si potrebbe affermare in realtà che l'intera opera di Borowczyk è un costante omaggio alla donna. "E l'elemento sicuramente più affascinante del reticolo fisso di corrispondenze e di analogie che percorre i film di Borowczyk è il corpo femminile che appare e scompare come il vero punto di forza dell'incastro narrativo. La donna è il punto di fuga dell'amore; è il cuore della spirale che avvolge e distrugge i ‘destini narrativi' dei personaggi maschili; è il macchinario erotico per eccellenza".
[12] Lo studio dei corpi e delle loro pose, è un filo rosso che unisce con unitarietà e coerenza l'intera carriera del regista, fin dai tempi dell'animazione. Attraverso una messinscena puntuale e precisa, che si compone di eleganti
tableaux vivants in cui nessun dettaglio è lasciato al caso, prende così forma la celebrazione del femminile: un affresco cangiante di "ventri, natiche, cosce, seni, gambe, pelli delicate e dorate, pubi d'ebano che costituiscono il più fervente inno dedicato alla bellezza della donna.
Non siamo però di fronte all'esibizione impudica di una donna-merce. Al contrario, Borowczyk si approccia al nudo femminile "con un fervore, una sensualità e un senso estetico che mancava fino ad allora nel cinema e dà all'erotismo la grandezza che troviamo nelle arti".
[13] Un erotismo che, per quanto esplicito, nelle intenzioni del cineasta non è mai inteso a simulare il piacere dello spettatore, ma che anzi ne interroga limiti e tabù, in un'audace e personalissima operazione di riscrittura della forza sovversiva della sessualità femminile.
[1] Alberto Pezzotta, Il cinema di Walerian Borowczyk. Introduzione in Alberto Pezzotta (a cura di), Associazioni imprevedibili: il cinema di Walerian Borowczyk, Torino, Lindau, 2009, p. 11.
[2] Valerio Caprara, Walerian Borowczyk, Firenze, La Nuova Italia, 1980, p. 90.
[3] Fabio Giovannini, Il cinema di Walerian Borowczyk: l'estetica della trasgressione, l'eros liberatorio di un cineasta maledetto, Roma, Mare Nero, 2002, p. 8.
[4] André Cornand, Boro, le magicien in Emanuele Horodniceanu, Walerian Borowczyk, Venezia, Ufficio attività cinematografiche dell'Assessorato alla Cultura, 1982, p. 8.
[5] Valerio Caprara, Walerian Borowczyk, Firenze, La Nuova Italia, 1980, p. 37.
[6] Roberto Curti, Rituali d'amore. Mandiargues e Borowczyk, dalla pagina allo schermo in Alberto Pezzotta (a cura di), op. cit., p. 74.
[7] Tullio Kezich, La bestia, «Panorama», 25 febbraio 1976, p. 63.
[8] André Cornand, Boro, le magicien, op. cit., p. 9.
[9] Valerio Caprara, Walerian Borowczyk, op.cit., p. 73.
[10] Roberto Curti, Rituali d'amore. Mandiargues e Borowczyk, dalla pagina allo schermo, op. cit., p. 75.
[11] Ivi, p. 81.
[12] Enrico Magrelli, Walerian Borowczyk: il collezionista in Emanuele Horodniceanu, Walerian Borowczyk, Venezia, Ufficio attività cinematografiche dell'Assessorato alla Cultura, 1982, p. 3.
[13] André Cornand, Boro, le magicien, op. cit., p. 9.
22/01/2018